
La prima volta che sentii il nome di Gary Moore non avevo ancora 20 anni. O meglio, non sentii il suo nome bensì il suono della sua chitarra.
Era la primavera del 1987 e c'era stata la tragedia a largo di Zeebrugge, in cui, a seguito del naufragio del traghetto Herald, persero la vita oltre 200 passeggeri britannici. In quell'occasione il munifico Paul McCartney si inventò il "Ferry Aid" per raccogliere fondi da destinare alle famiglie delle vittime e rieditò una corale Let It Be coinvolgendo rinomati artisti (Boy George, Mark King dei Level 42, Kate Bush, etc.). Da beatlesiano non esitai a prestare il mio orecchio a questo remake e mi chiedevo come sarebbe stato il solo di chitarra di Harrison. Mi accorsi che quell'intervento venne splittato, diviso in due: la prima parte - dolce suadente e soft - affidata al tocco felpato di Mark Knopfler dei Dire Straits... E la seconda? Fu un fulmine a ciel sereno: una nota in bending ripetuta con distorsore a manetta, pilotata dalla leva del vibrato per salire ancora più in alto. La sua firma. Questo era Gary Moore.