Dunque sia il nome del gruppo, Status quo, che la svolta psichedelica (la band veniva dal rock n’roll anni ‘50 ed era già transitata per un periodo hard/blues) derivavano dal tentativo di volerci provare a tutti i costi di un gruppo di post adolescenti dei sobborghi della Swinging London (Guilford e dintorni) che stavano cominciando a diventare nervosi rispetto alla scelta di tentare di guadagnarsi il pane con la musica.
Tentativo riuscito: l’album entrò in classifica (anche se non proprio ai vertici: settimo posto in Uk e 12° negli Usa) sgomitando fra i lavori di altri figli dei fiori come i Beatles, i Pink Floyd, Bee Gees, Cream , a cui somiglia senza raggiungerne le vette. La chitarra c’è, più delle voci, ed è già bella potente e precisa. Gli Status quo erano diventati musicisti professionisti, anche se non di grande successo. Quello sarebbe arrivato quattro o cinque anni (e dischi) dopo, con i dischi di platino come se piovessero, lo stile non più psichedelico ma “hard boogie” con quella miscela fra R&B all’inglese e schitarrate alla Clapton che ha riempito per i trent’anni successivi la programmazione delle radio e gli stati sulle due rive dell’oceano (in Italia, per verità, mica molto: non so se siano neppure mai venuti a suonare). Negli anni 70 sono statiforse la band inglese numero uno al mondo, dopo i Led Zeppellin prima del ciclone punk. Per tacere del rinnovato successo ottenuto negli Ottanta e Novanta con le partecipazioni alle varie edixioni del Live Aid…
Ma, ritornando al 1968 e a questo disco: era possibile intuire già la futura grandezza? Per anni si era favoleggiato di un capolavoro dimenticato con voci alla John Lennon e strumenti alla Pink Floyd. La nuova edizione De Luxe (due dischi, versione mono e stereo dell’originale più un bel po’ di inediti del periodo) forse finisce un po’ per appesantire la frescezza del prodotto, che indubbiamente c’è e ricorda, più che altro, gruppi psichedelici di oltreoceano del periodo come i Chocolate Watch Band, i Seeds e i Lemon Pipers (non a caso una delle tracce, Green Tambourine, è la cover del loro maggior successo.
Ma rivela anche altre cose, come per esempio il fatto che dal vivo, anche nel periodo, il gruppo seguiva altre strade: a Top of the pops cantavano Gloria di Van Morrison, come facevano tutti in quel periodo, dai Doors a Shirley Bassey e come dicei anni più tardi avrebbe fatto anche Patti Smith.
Piacevole, complessivamente leggero, fresco, non necessario: spiega perché alla fine i 60 restano fra i nostri anni preferiti. Ci si poteva provare, divertendosi, e finendo pure per diventare famosi senza bisogno di incarognirsi troppo…