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Quando i videogiochi si fanno narrazione

Creato il 08 dicembre 2015 da Rivista Fralerighe @RivFralerighe

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Cosa caratterizza un buon videogioco?
Secondo la credenza comune, è la grafica a fare la differenza. Se l’immagine del protagonista che si riflette in una pozzanghera non è realistica, non vale proprio la pena di prendere in mano il joystick. Si ha la tendenza a sorprendersi della dinamica delle gocce di sudore dei giocatori in campo, in uno dei tanti giochi di calcio che escono anno dopo anno, senza però far caso all’assenza di veri e propri contenuti.

Col passare del tempo ci siamo dimenticati del periodo d’oro delle avventure grafiche, i famosi “punta-e-clicca” che erano il cavallo da battaglia di case come la Lucasarts (basti solo pensare a titoli come Monkey Island e The Dig) o la Revolution, che ha fatto la storia con i primi due capitoli del suo Broken Sword.

Life is Strange

Grafica batte trama, per molte categorie di giocatori.
Il gameplay deve avere un certo dinamismo, deve essere innovativo, altrimenti in che modo dovrebbe differenziarsi? Ha il multiplayer online gratuito? Ecc..

Ovviamente nessuno vuole fare di tutta l’erba un fascio (da giocatrice di GDR incallita quale sono, non oserei mai). BioWare e Bethesda, per citarne alcune, negli anni hanno dato vita a prodotti di altissimo livello (se non mi credete, date un’occhiata a titoli come Dragon Age, Mass Effect e Fallout), che hanno saputo unire un ottimo gameplay a una altrettanto curata trama.

Ma ad andare per la maggiore ultimamente nello sviluppo delle trame sono i cosiddetti titoli indie. Oggi parleremo di due videogiochi: il giapponese To the Moon e l’americano Life is Strange.

Entrambi i titoli si basano su dinamiche di gioco più o meno lineari, livelli chiusi, con un alto quantitativo di dialoghi che hanno la funzione di guidare il giocatore attraverso i vari aspetti della trama.

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To the Moon è la risposta in 2D alla domanda “la grafica è davvero tutto”? No. Per garantire un ultimo desiderio a Johnny, ormai in punto di morte, il giocatore dovrà ripercorrerne a ritroso le varie fasi della vita e trovare il modo di mandarlo sulla luna. Una storia strappalacrime con una colonna sonora altrettanto toccante, molto più simile a un libro interattivo che a un videogioco. Ma fa parte del suo fascino.

Life-is-Strange

E poi c’è Life is strange. In questo caso l’interazione col mondo circostante è molto più presente e la trama più elastica, influenzata in una certa misura dalle scelte del giocatore. Nei panni di Max Caulfield, una studentessa diciottenne appassionata di fotografia, si dovrà far luce sulla scomparsa di una coetanea e l’imminente arrivo di un tornado che potrebbe spazzare via l’intera città. Piccolo bonus: Max può andare indietro nel tempo. Questo aspetto fa la differenza nel ventaglio di scelte che viene presentato al giocatore, sia per quanto riguarda l’interazione con gli altri personaggi che per il finale. Un’altra piacevole particolarità è la suddivisione in “episodi”, cinque per l’esattezza, che hanno dato al gioco lo stampo da serie televisiva, con tanto di riassunto della scorsa puntata e anticipazioni della seguente.

In entrambi i giochi esaminati, il giocatore può godere di una trama ben costruita senza doversi preoccupare di un gameplay troppo invadente, o da far saltare i nervi (la settima piaga è il “rage quit”, dico io). Non che un connubio tra le due sia impensabile, esiste davvero un’infinità d’esempi. Ma una bella storia, sia essa in pixel art, interpretata da attori o inchiostro su carta, è spesso più liberatoria di una scazzottata digitale.

Christine Amberpit



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