Ci sono tantissimi modi per raccontare una partita di calcio: c’è la cronaca diretta che spesso viene condotta da tifosi veri e propri (vedi Carlo Pellegatti su Milan Channel o Roberto Scarpini su Inter Channel, solo per citare i più famosi) o da giornalisti veramente appassionati di pallone (come Fabio Caressa di Sky) e ci sono anche le sintesi in differita offerte da trasmissioni televisive ad hoc (Controcampo, La Domenica Sportiva, 90° Minuto, etc..etc..); quello che non avevo ancora visto è la cronaca condotta dal palco di un teatro, il racconto di una partita giocata quando ancora io non ero nato e sentita dentro come se l’avessi vista, come se ne avessi assorbito le emozioni.
Artefice di questo piccolo miracolo è stato Davide Enia, un istrionico attore teatrale palermitano, che ieri sera ha dato vita ad uno spettacolo tragicomico imperniato sulle vicende della Nazionale Italiana di calcio durante il mondiale di Spagna del 1982.
Il fulcro della storia è l’epico incontro tra Italia e Brasile: match storico nell’immaginario calcistico nostrano, in cui l’undici capitanato dal quarantenne Dino Zoff si è imposto per 3 a 2 sulla compagine verdeoro, conquistando così le fasi eliminatorie di un torneo che ci avrebbe visto conquistare per la terza volta in assoluto il titolo mondiale. Da qui il titolo della piece: Italia Brasile 3 a 2.
La narrazione di Enia parte dal salotto della propria casa, in quel di Palermo, dove da ragazzino assistette alla partita insieme alla famiglia tutta in mezzo ad una miriade infinita di scongiuri e riti scaramantici volti a favorire l’undici azzurro; inutile dire che, trattandosi di famiglia siciliana, lo spettacolo sia stato di una intensità emotiva particolarmente potente. Per non parlare delle risate suscitate dalla verve narrativa dell’attore.
Due momenti della divertentissima serata, però, sono stati particolarmente profondi e toccanti.
Il primo è stato il ricordo di Manoel Francisco Dos Santos, altrimenti detto Garrincha.
Manoel nacque nel 1933 in una favela di Pau Grande, alla periferia di Rio De Janeiro; uno dei quartieri più poveri della città brasiliana le cui scarse condizioni igieniche fecero sì che contraesse, da piccolissimo, la poliomelite: una terribile malattia che lo fece rimanere per quasi un anno in bilico tra la vita e la morte e, una volta sconfitta, gli lasciò sul corpo i pesanti segni del suo passaggio.
Magrissimo ed emaciato, affetto da un leggero strabismo, con il bacino sbilanciato, le ginocchia storte e una differenza di ben 6 cm tra una gamba e l’altra, Manoel non era benvoluto dai coetanei che, tanto per cambiare, passavano le giornate a giocare a calcio per dimenticare fame e miseria; garrincha, ovvero passerotto, fu il soprannome attribuitogli dalla sorella per quell’andatura zoppicante e sconnessa nel camminare e nel correre.
Proprio quest’andatura gli permise, con tanto accanimento, di sviluppare una tecnica di dribbling imbattibile ed efficacissima con la quale negli anni a seguire avrebbe ridicolizzato centinaia di avversari: il movimento era sempre lo stesso e sfruttava appieno la malformazione alla gamba traendo sempre in inganno il malcapitato difensore. Grazie all’impegno e alla tenacia Garrincha riuscì a farsi notare dal Botafogo e quindi dalla Nazionale Brasiliana che lo fece diventare Alegria do Povo (Gioia del Popolo) nel mondiale della sua consacrazione definitiva, il vittorioso mondiale di Svezia 1958.
Dal carattere irrequieto in campo ed estremamente semplicistico fuori, Manoel non cedette mai agli sfarzi della vita da calciatore ma restò sempre uno del popolo e da cittadino qualsiasi visse, tra gli abusi di alcool, finchè il fato non ne spezzò l’esistenza: era il gennaio del 1983 (io avevo appena appena un anno di vita) e Manoel, non ancora cinquantenne, passeggiava tranquillo in mezzo al popolo che lo aveva acclamato nei campi di calcio, in mezzo alla gente a cui aveva portato tanta gioia in quegli anni, quando un edema polmonare lo colpì a morte.
Il secondo pugno allo stomaco della mia serata teatrale è stato il racconto della partita della morte avvenuta nell’agosto del 1942 tra la Dynamo Kyev e una selezione di calciatori dell’esercito tedesco.
Verso la fine degli anni 30 la Dynamo Kyev era la squadra più forte in Europa, spadroneggiava entro i propri confini e stava preparandosi ad estendere il proprio dominio calcistico su tutto il suolo continentale come avrebbero fatto negli anni a venire altre grandi squadre come il Benfica di Eusebio, il Real Madrid di Di Stefano, l’Inter di Suarez e, più recentemente, il Milan di Van Basten.
Lo scoppio della prima guerra mondiale, però, ne fece naufragare le sorti e così, per sfuggire alle persecuzioni succedutesi all’occupazione ariana dell’Ucraina, i giocatori si reinventarono fornai e sparirono dalla circolazione per qualche anno, finchè, un ufficiale delle SS non notò, in maniera del tutto casuale, la somiglianza tra i volti di quei provetti fornai e quelli di alcuni dei giocatori della famosa Dynamo.
L’ufficiale indagò e scoperto l’inghippo costrinse gli ex giocatori della squadra ucraina a tornare in campo per affrontare una squadra composta da camerata tedeschi; l’esito, scontato, dell’incontro fu una vittoria roboante degli ucraini per 4 a 0.
Indignato dalla cosa, l’ufficiale organizzò un altro incontro per il mese successivo, agosto 1942, appunto,in cui agli ucraini fu intimato di perdere se volevano salvarsi la vita.
In campo, per l’occasione, la Dynamo Kiev si presentava con i giocatori che erano veri e propri eroi nazionali come il portiere Nikolai Trusevich, leader della squadra, e l’attaccante “storico” Ivan Kuzmenko; di fronte a loro una squadra formata da giocatori tedeschi e ungheresi; sugli spalti oltre 40.000 spettatori ucraini tenuti sotto tiro dei mitra delle SS.
L’arbitraggio fu sin da subito a favore dei tedeschi, tanto che, per non rischiare dolorose ferite, gli ucraini si limitarono a giochicchiare svogliatamente.
Prima della fine del primo tempo un attaccante tedesco si propose in un azione personale, scartò senza apparente problemi tutta la difesa avversario e calciò in porta: Trusevich osservò il pallone infilarsi in rete e sentì il gelo di tutti quei tifosi attanagliarli il cuore.
Ciò non era previsto. Il patto era di perdere volutamente per non essere uccisi, non di deludere così tanti tifosi accorsi allo stato per acclamarli incuranti dei fucili tedeschi.
Allora, Trusevich e compagni ricordarono che essere calciatore vuol dire scendere in campo per vincere, e infatti dopo un secondo tempo giocato alla perfezione, il risultato dice Dynamo Kyev 3 – Selezione Tedesca 1.
Il pubblico esplose letteralmente dalla gioia, il mito della superiorità totale della razza ariana non si concretizzò e Trusevich e la sua squadra divennero degli eroi, dei patrioti e, purtroppo per loro, anche dei martiri della follia tedesca.
Vennero fucilati tutti nel cerchio di centrocampo. Tutti tranne il portiere Trusevich.
Per lui, l’ufficiale ha riservato un trattamento speciale; un calcio di rigore speciale.
Un cecchino si piazza all’altezza del dischetto di rigore e mira al cuore del portiere ucraino che para, con il petto, l’ultimo rigore della sua carriera e della sua vita.
Ecco, questa storia dovrebbero leggerla molti dei calciatori che in questi giorni parlano di scioperi perchè, poverini, devono giocare alle 12:30 sotto il sole cocente; devono svegliarsi all’alba e pranzare alle 10; devono imbottirsi di medicine per sopportare una partita di calcio giocata un paio d’ore prima.
Ma fatemi il piacere, và!