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Quando il cliché diventa archetipo

Creato il 23 febbraio 2013 da Rivista Fralerighe @RivFralerighe

Da Fralerighe n. 3

La letteratura mondiale, specialmente negli ultimi decenni, ha sviluppato una forte tendenza a respingere con forza ogni idea di cliché. I luoghi comuni, le cose già viste o sentite in altri libri, sono senza alcun dubbio degli errori, poiché preannunciano già qualcosa al lettore, o rendono la scena banale. Ma è sempre così?

Quando il cliché diventa archetipo
Come ogni battaglia, anche questa non può e non deve essere assolutistica. Il grigio, l’eccezione, dev’esserci. In questo caso siamo davanti a una grande eccezione, poiché sono molti i cliché che devono essere bene accetti. Per rendercene conto, guardiamo al passato. Nella Commedia, Dante utilizza una figura emblematica: Caronte, il traghettatore degli inferi. Se oggi pensiamo a un traghettatore, ovviamente come figura misteriosa o semi-sconosciuta, riconosceremo il paragone, adocchiando a quella figura come a colui che da accesso a un nuovo mondo o che – in alternativa – segnala la fine di uno e l’ingresso nell’altro. Questa nostra idea non è venuta da Dante, ma dalla tradizione classica. Per l’Alighieri, infatti, valeva lo stesso condizionamento che muove noi. Il traghettatore è stato inserito nella Commedia proprio per ciò che significava. A tutti gli effetti parliamo di un cliché, ma che ha superato il semplice essere di moda, e ha raggiunto stato maggiore, l’archetipo. L’archetipo non può e non deve essere combattuto, poiché rappresenta ciò che l’autore vuol dire, senza doverlo scrivere esplicitamente. Caso simile, lo abbiamo nell’Yvain, Le chavalier au Lion di Chretien de Troyes. Questo romanzo in versi arturiano – precedente alla Commedia di più di un secolo – mostra una figura parallela al traghettatore, il bovaro. Anche qui – forse in maniera meno esplicita – abbiamo un archetipo diverso, ma al contempo uguale. Il significante cambia, ma il significato è lo stesso. Bisogna non confondere, però, la possibilità di variare i significanti con il poter eliminare il cliché mantenendo il significato. Perché un archetipo sia riconosciuto – e quindi svolga il suo compito di portatore di un messaggio – la figura dev’essere già nota al pubblico e rivestire già per tutti il ruolo che l’autore vuoQuindi non è possibile pensare a un guerriero come sostituzione del bovaro – o del traghettatore – perché nessuno potrà mai ricollegarlo al significato voluto. Se è così, allora, quando i cliché vanno eliminati, e quando si rivestono da archetipi? La risposta può essere solo fumosa, come ogni cosa che riguarda la letteratura. Per via generale, tuttavia, il cliché “maligno” è quello che viene inserito per identificare l’ambientazione o il genere senza scopi nascosti. Inserire nel proprio libro un drago, un elfo e una spada magica, darà al lettore il chiaro messaggio di star leggendo un fantasy classico. In questi casi l’autore dovrebbe sforzarsi di eliminare tutti i cliché non essenziali, per delineare a modo suo – e quindi in modo innovativo – il mondo che sta creando. Al contrario, quando il cliché viene inserito consapevolmente per unico scopo di comunicare un messaggio, allora è facile che si tratti di un archetipo, facendo attenzione a quanto detto su: il significante dev’essere già noto al pubblico, altrimenti il messaggio non potrà giungere. Spesso i critici si dividono su questo punto. Alcuni puntano a definire cliché ogni ridondanza, altri li rendono tutti archetipi. Quale che sia la cosa giusta da fare, ritengo che la presenza di due termini debba portare a una bipartizione del significato. Se significassero la stessa cosa, non saremmo qui a parlare della loro differenza.

Dunque, come sempre, forse la verità sta nel mezzo.

Maurizio Vicedomini



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