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Quando il Duce decise per l’autarchia del poliziesco

Creato il 31 maggio 2013 da Rivista Fralerighe @RivFralerighe

Da Fralerighe Crime n. 5

Premessa: Questo articolo non ha alcuna connotazione ideologica o politica. E’ solo un approfondimento su un aspetto della storia del romanzo poliziesco italiano.

Quando il Duce decise per l’autarchia del poliziesco

Il primo “Giallo Mondadori” (1929).

Correva l’anno 1929. L’anno dei patti Lateranensi (concordato tra chiesa e stato italiano), della crisi economica mondiale e della scoperta della penicillina. E, per gli amanti del poliziesco, l’anno in cui la casa editrice milanese Mondadori diede alle stampe la serie di “libri gialli”. I primi numeri della serie presentavano esclusivamente autori stranieri, di origine anglo-americana. Nomi come Agatha Christie, S.S. Van Dine e Ellery Queen divennero presto famosi tra i lettori italiani che si avvicinavano a quel genere conosciuto come “detective story”. Il successo di pubblico dei “Gialli Mondadori” (ormai considerati dai lettori come sinonimo di letteratura poliziesca) spinse diverse case editrici a pubblicare romanzi a carattere poliziesco e d’intrigo, sia come pubblicazioni a sé stanti sia in dispense su riviste (caratteristica ereditata dal feuilleton di fine ‘800). Sull’esempio della Mondadori, le case editrici dovettero pubblicare vicende tradotte dall’estero, poiché non esisteva ancora in Italia una “scuola” di autori di romanzi polizieschi vera e propria.

In un primo tempo il regime fascista tollerò la presenza sul mercato e il relativo successo di pubblico dei romanzi gialli. Le storie proposte provenivano dall’estero, dunque non intaccavano la “salute” della società italiana, i delitti erano sempre di matrice soggettiva e avevano un finale consolatorio, nel quale il bene trionfava sul male e la vita ritornava sui binari della rettitudine. Può sembrare curioso che il regime dovesse approvare la pubblicazione di un genere letterario ma bisogna inquadrare la questione all’interno dell’epoca nella quale affiora. Siamo nel pieno del “Ventennio”, il periodo della fascistizzazione della società italiana, della ricerca del consenso, del dopolavoro fascista, dei “balilla” e delle “figlie della lupa”. E’ l’epoca delle veline del Duce, ovvero delle disposizioni da parte del Ministero della Cultura Popolare (il MinCulPop), che tendevano a censire e calmierare le notizie da pubblicare. E’ il momento in cui, nelle redazioni dei quotidiani italiani, giungono rettifiche del tipo “Si fa assoluto divieto di pubblicare fotografie di carattere sentimentale e commovente di soldati in partenza, che salutano i loro cari” oppure “Vietato pubblicare le fotografie di Carnera a terra.”

Il fulmineo successo del romanzo poliziesco diede vita al nucleo primigenio del “giallo all’italiana”, che vedeva in scrittori come De Angelis o D’Errico le cosiddette punte di diamante. Gli editori furono molto intelligenti nel comprendere che il pubblico italiano aveva voglia di leggere storie scritte da autori italiani e nel valorizzare di conseguenza gli autori di casa nostra. Molte riviste poliziesche dell’epoca presero a titolare le proprie uscite con strilli esagerati e di chiaro stampo di regime, come “Oggi dieci racconti polizieschi da mozzare il fiato, di cui ben otto di autori italiani di autarchica capacità di scrittura”.

Quando il Duce decise per l’autarchia del poliziescoIl giallo, come qualunque prodotto nazionale dopo le sanzioni internazionali applicati all’Italia in seguito all’invasione dell’Abissina, doveva essere di chiaro stampo autarchico, ovvero creato e pensato da scrittori italiani.

Ovviamente non era possibile scrivere romanzi ambientati in Italia, pena la censura e il ritiro dell’opera. De Angelis ambientava le proprie opere in alberghi, case di moda, appartamenti signorili di chiara ispirazione estera, utilizzando nomi di origine anglosassone. Anche il giovane Scerbanenco, per evitare d’incappare nelle reti dell’Ovra (la polizia politica fascista), dovette inventare il personaggio di Arthur Jelling, investigatore dilettante e archivista della polizia di Boston, città di cui Scerbanenco ci da una descrizione approssimativa e alquanto fantasiosa.

Perché dunque questa “schizofrenia” del regime fascista nei confronti del poliziesco italiano? La valorizzazione di autori italiani ma l’assoluto divieto di narrare vicende legate all’Italia?

In quel periodo era in atto un profondo condizionamento della società italiana da parte del regime, che mirava all’ottenimento del consenso totale da parte di ogni ramo dell’opinione pubblica italiana. L’immagine del Duce Benito Mussolini come “padre della nazione”, uno statista che dedica anima e corpo alla salvaguardia della nazione e della sua integrità, passava anche attraverso il convincimento che l’Italia fosse un paese “sano”, dove era impensabile che avvenissero delitti, suicidi o fatti di sangue. Quindi il romanzo poliziesco, che trattava tematiche criminali e violente, perse la sua caratteristica di “intrattenitore delle masse”, finendo per diventare un pericoloso strumento corruttore dei principi della moralità comune e della gioventù, che il regime voleva “aitante, energica, pura e senza paura”. Il passo dalla “tolleranza” all’antipatia aperta fino alla guerra al poliziesco fu breve e non certo indolore.

Quando il Duce decise per l’autarchia del poliziescoOmar Gatti

[articolo già pubblicato sul blog di Noir Italiano - Tutto il nero del poliziesco all'italiana]



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