Art by Quint Buchholz
Chi ha frequentato o frequenta una delle facoltà afferenti alle discipline umanistiche lo sa bene: l’Italia non è un paese che offra loro sbocchi lavorativi. Imputare questa situazione all’ultima, grave crisi economica sarebbe a dir poco risibile, in quanto da anni nel nostro Paese è andato diffondendosi un vero e proprio pregiudizio nei confronti di chi decide di intraprendere questa strada; un pregiudizio semmai accentuato ed estremizzato nei tempi a noi più recenti. Se prima lo sbocco, inevitabile o quasi, di un laureato in lettere, in filosofia, in storia, nelle discipline artistiche era l’insegnamento, con lo stravolgimento della scuola italiana anche questa strada è stata sbarrata. Ogni anno, con l’apertura delle scuole, un certo tipo di TV nota con un mal celato compiacimento la fuga dai licei, il liceo classico in primis, e malgrado ci si vanti a destra come a sinistra dell’enorme qualità del patrimonio storico-artistico, letterario, musicale italiano, l’evidenza dell’agenda politica lascia intendere interessi ben diversi.
A questa situazione di certo non rosea si aggiungono dichiarazioni provenienti da personalità che, per il ruolo ricoperto, dovrebbero mostrare un maggiore senso di responsabilità nel trattare tematiche di tale criticità: è il caso del presidente dei giovani industriali italiani, Federica Guidi. In un articolo pubblicato su «la Repubblica Bologna» il 10 febbraio di quest’anno la Guidi, diplomata al liceo classico e laureata in giurisprudenza, oggi manager dell’azienda di famiglia (la Ducati energia), afferma con convinzione che «ci sono dei pezzi di carta che non servono a niente e che un buon perito e un buon disegnatore meccanico, che magari parlino bene inglese, possono avere oggi davanti a sè un percorso professionale più roseo» rispetto, ovviamente, ai poveracci che abbiano speso inutilmente il loro tempo approfondendo lo studio di Schopenauer o Pasolini.
Le parole della Guidi, obiettivamente, vengono supportate dall’evidente stato delle cose, in considerazione della fortissima penalizzazione che il mercato del lavoro riserva ai laureati nelle discipline umanistiche e in virtù d’una crescente richiesta di tecnici. Ed è proprio alla luce di queste considerazioni che risulta doveroso condannare dichiarazioni che bollano le discipline umanistiche in quanto inutili, non produttive, una sicura candidatura alla disoccupazione. La difficoltà di incontro tra laureati in discipline umanistiche e mercato del lavoro, infatti, è una mostruosità spiccatamente italiana: nel nostro Paese il sistema universitario è spesso estraneo alla realtà con la quale i giovani laureati si dovranno scontrare e il sistema politico non prova alcuna vergogna nello sbandierare la sua ignoranza, dichiarando esplicitamente che “la cultura non si mangia”. La cecità di questa visione è palese, non solo perché smentita dalla pratica ma anche perché seguendo questa linea di pensiero non si investe proprio nel settore in cui l’Italia potrebbe sbaragliare qualsiasi concorrenza (anche l’invincibile concorrenza cinese); al tempo stesso, è impossibile non notare come questo ostracismo che ghettizza e scoraggia i giovani diplomati nell’avvicinamento alle facoltà umanistiche sia in qualche modo esplicitamente voluto. La filosofia, la letteratura, l’arte sono discipline che portano le persone a pensare, a interrogarsi, a cercare delle risposte; considerate chiacchiere a confronto dei presunti “fatti”, in realtà è proprio sui fatti che esse agiscono, stimolando il pensiero critico, e proprio per questa ragione, in definitiva, risultano territorio ostile per chi necessita di esseri umani che agiscano come macchine. Un popolo che legge, un popolo che osserva e non si limita a guardare, è un popolo che comprende e non può essere sedato, pratica questa che è stata e continua ad esser posta in essere in Italia.
Definire, dunque, inutili i percorsi di laurea umanistici significa definire inutile il nostro intero patrimonio culturale, quello stesso patrimonio che i politici esaltano in occasione della fiera internazionale del turismo e poi, nel concreto, distruggono. Di fronte a tale situazione, l’unica forma di resistenza è continuare ad attingere a piene mani alla nostra letteratura, alla nostra arte, alla nostra storia, senza il timore di essere considerati degli idealisti fuori mercato, perché se è vero che quest’ultimo è il campo di battaglia in cui dobbiamo agire, è altrettanto vero che noi non siamo e non dobbiamo considerarci categoria merceologica e che considerare inutili le discipline fondate sull’esercizio del pensiero critico significa consegnare il Paese nelle mani della dittatura della stupidità.
Saba Ercole per Libri Consigliati