“La divinità primordiale fu femmina, una Dea nata da se stessa, donatrice di vita, dispensatrice di morte e rigeneratrice. Univa in sé la vita e la Natura. Il suo potere era nell’acqua e nella pietra, nei tumuli e nelle caverne, negli animali, uccelli, serpenti, pesci, nelle colline, negli alberi e nei fiori.”
Il culto della Dea Madre in Sardegna
Con queste parole, l’archeologa lituana Marija Gimbutas sintetizza la possibilità di reinterpretare la storia che conosciamo, soprattutto per quanto riguarda la sfera religiosa. Non un Dio Padre creatore dell’universo veniva adorato dai nostri antenati, ma una Dea Madre, fertile, pingue, generosa, come ci illustra la ricca statuaria pervenutaci, che dipinge una divinità femminile dai fianchi e dai seni prosperosi e dal ventre gravido.
Il lavoro della Gimbutas, ancora, ahimè, misconosciuto per gran parte, è teso a dare una legittimità storica, archeologica e antropologica al culto di una divinità femminile già a partire dal tardo paleolitico e per tutto il corso del neolitico.
Pettinature elaborate, sguardo severo, lineamenti del viso appena abbozzati, seni preminenti, fianchi larghi. Chi era questa Dea? Che cosa rappresentava per i nostri progenitori?
Era una divinità che in primo luogo generava per partenogenesi, “nata da se stessa”, non aveva bisogno della presenza maschile. Il suo potere si poteva riscontrare in ogni essere e in ogni fenomeno naturale, nelle pietre e nell’acqua, negli animali e nei fiori.
A essa erano legate tre fortissime accezioni: la vita, la morte e la rinascita.
Essa era dispensatrice di vita, in grado di risvegliare la terra dopo le angustie dell’inverno, di offrire nutrimento agli uomini, di far sbocciare i prati, di rischiarare i cieli, di favorire la fertilità degli animali. I suoi seni, tanto cari a questi primi formidabili scultori, gorgheggiano di vita: non a caso la Dea li protegge, li nasconde tra le mani, come se in essi custodisse un tesoro prezioso.
Essa è divinità di morte, accompagna il trapasso, guida il defunto nel suo viaggio nell’aldilà. È una Dea Civetta che vigila sul sonno dei morti, là in quel mondo dove i mortali più nulla possono. Ecco il fiorire di rappresentazioni sublimi di questa divinità della morte, come quella posta all’ingresso della Domus de Janas di Corongiu, a Pimentel, che esemplifica lo sguardo della Dea, i due occhi a spirale che sorvegliano l’ingresso nell’Ade, le linee a zig zag che riecheggiano le onde di un corso d’acqua, di un fiume da attraversare per passare a miglior vita, su cui scivolano veloci alcune forme stilizzate di barchette.
Linee che diventano nuovamente simbolo di vita, di una Dea che è possibilità di rinascita, di rigenerazione. La medesima vita inizia con una spirale, proprio come gli occhi della Dea: l’elica del Dna! La “casa delle fate”, in cui dormivano i defunti adagiati in posizione fetale, altro non rappresentava che un enorme utero in cui si attendeva una nuova vita.
La Dea accompagnava l’intero ciclo di vita degli uomini, dalla nascita alla morte, fino alla rinascita. Nulla muore, tutto si trasforma: una lezione che i nostri antenati avevano ben appreso da Madre Natura, con il quale intrattenevano un legame viscerale di cui a noi rimane solo atavica memoria.
Ma cosa ne è stata di questa Divinità femminile che ha imperato per tutto il Neolitico? Alcune ipotesi ci suggeriscono l’arrivo di popolazioni indoeuropee, quelle che la Gimbutas chiama “Kurgan”, portatrici di valori, culti, divinità molto diverse da quelle che avevano caratterizzato la culla della Dea sino ad allora. Inizia così una lotta per il dominio sulle anime: la divinità femminile si trova a fronteggiare nuove divinità maschie e bellicose. Una battaglia destinata a fallire.
La Dea e le sue sacerdotesse vengono sottoposte a un lento -ma efficace- processo di demonizzazione di cui conserviamo testimonianza attraverso una mole consistente di racconti e leggende: Medusa, Luxia Arrabiosa, Maria Mangrofa, Sa Mama e Su Sole, Sa Mama e Su Bentu, le Panas, le Surbiles, le Cogas…. tutti esseri da cui stare decisamente alla larga.
Ma per lo stesso principio per cui nulla muore, tutto si trasforma, anche l’antica Dea, Madre del genere umano, Madre del divino per eccellenza, non scompare: la sua maestosa presenza ancora oggi domina sulle nostre piazze e addolcisce i nostri luoghi di culto. A voi la ricerca.
Valentina Lisci
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Per maggiori info
http://www.marijagimbutas.com
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