Magazine Diario personale

Quando la lettura è pesante (per me)

Da Bangorn @MarcoBangoSiena

Il 2014, per me, è stato un anno disastroso in fatto di letture. Il mio ritmo è rallentato sensibilmente, e i motivi sono diversi, uno tra tanti la mancanza di concentrazione per una serie di problemi lavorativi. Ogni volta che iniziavo a leggere qualche riga, mi accorgevo di non aver fatto altro che scorrere le parole con gli occhi senza aver letto sul serio.

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Questo problema veniva aggravato anche da un altro fattore: lo stile di scrittura. Adesso devo fare una piccola premessa, prima che si inizi a dissertare di tecniche e manuali, perché non è di questo che voglio parlare. Parto col dire che si tratta di gusti personali, di ciò che piace a me, di ciò che amo leggere.

Si è sempre portati a credere che classici scritti 200 anni fa siano più pesanti e difficoltosi rispetto alle uscite moderne. Ho letto addirittura un commento su Facebook, dove una ragazza diceva di odiare Dickens perché era pesante, accusandolo di indulgere troppo in descrizioni. Evidentemente, non ha mai letto Dickens.

Troppo spesso ho iniziato libri in cui l’autore cerca in tutti i modi di impressionare il pubblico, infarcendo lo scritto non solo con descrizioni, ma con virtuosismi filosofici e una dose esagerata di melodramma. E buona parte della letteratura da tavolone centrale è fatta in questo modo.
A questo punto, il lettore abituato a questi prodotti arriva a definire autori come Lansdale “semplicistici”. Non vi è mai capitato di leggere commenti del tipo: “Scrittura semplice ma godibile.”

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Ora, io ho bisogno di Lansdale, ho bisogno di Connolly, ho bisogno di Elmore, ho bisogno di qualsiasi autore che sia diretto, che riesca nella magia di arrivare al dunque facendoti immaginare tutto il resto, anche attraverso i dialoghi. Soprattutto attraverso dialoghi ben fatti e articolati.
Una caratteristica che, guardate un po’, troviamo in un autore classico di 200 anni fa. Indovinate chi.
Vi basterà come indizio che vi dica che i suoi lavori sono incentrati sull’investigatore più famoso al mondo.

E vi invito a leggere questo brano di Gardner, cercando anche il resto della sua analisi. Riassume perfettamente quale sia il problema di molti prodotti odierni.

Lo scrittore più svantaggiato è quello il cui senso del linguaggio sembra incorreggibilmente deviato. L’esempio più ovvio è lo scrittore che non riesce a muovere un passo senza servirsi di frasi tipo “con un lampo di felicità negli occhi”, o “la deliziosa coppia di gemelli”, o “l’eco della sua sonora risata”: espressioni prive di vita, emozioni meccaniche, da zombie, di uno scrittore che nella vita quotidiana non prova alcuna sensazione o comunque non crede a ciò che sente in misura sufficiente da cercare di definirlo con parole proprie, e chi quindi preferisce ripiegare su “ella soffocò un singhiozzo”, “un sorriso amichevole all’angolo della bocca”, “inarcando il sopracciglio in quel suo tipico modo interrogativo”, “un lieve sorriso le piegava il labbro”, “il volto incorniciato da riccioli ramati”. Il problema è che non si tratta solo di clichés (logori, abusati) ma che questo linguaggio è sintomatico di uno sfondo psicologico che conduce all’atrofia.


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