Negli Stati Uniti da gennaio a oggi sono morte 976 persone uccise nel corso di scontri con la polizia, di qualsiasi genere. Soltanto pochi di essi suscitano l’indignazione pubblica: è il caso recente di Ferguson, per esempio, dove fu ucciso uno studente nero, Michael Brown, in circostanze particolarmente sospette e tali da far insorgere la città a seguito dell’avvenimento, o è il caso più vecchio, delle rivolte di Los Angeles del 1992, che misero a ferro e a fuoco interi quartieri dopo l’assoluzione di quattro membri della polizia accusati di aver picchiato Rodney King, tassista, anch’egli nero, nel corso di un inseguimento.
I numeri americani, che presuppongono più di tre morti al giorno per mano della forza pubblica, fanno impallidire qualsiasi paragone che può essere fatto con l’Italia e l’Europa per gli stessi fatti. La sensibilità del vecchio continente anzi è tale che nei rarissimi casi in cui un uomo muore ucciso dalla polizia l’opinione pubblica ha sempre il mezzo e i numeri per mostrare il suo legittimo sdegno, anche se sono numeri evanescenti, e spesso il tutto si trasforma in uno scontro di tifoserie, che spesso fa scendere in campo anche le forze politiche, e certamenti non tutti quelli che parteggiano per l’una o per l’altra parte alla fine hanno chiare le situazioni, né hanno gli strumenti per analizzare l’avvenuto. E’ comunque una situazione eccezionalmente superiore a quella degli Stati Uniti, sia quantitativamente che qualitativamente.
Per la verità, è sempre più raro leggere di casi clamorosi a proposito di un utilizzo eccessivo della forza da parte degli agenti statunitensi, sia perchè il pubblico è abituato e ormai sempre più convinto della necessaria limitazione della libertà in favore della sicurezza, sia perchè la cassa di risonanza mediatica seleziona accuratamente quali storie mostrare e con quale intensità.
Ancora sopravvive negli Stati Uniti una qualche forma di razzismo, per quanto qui le parti, in un paragone con l’Europa, si devono invertire: è la via americana che è superiore. Un razzismo questo, però, che non per forza porta alla discriminazione. Anzi, è spesso frutto proprio di quell’eccessiva cultura del politicamente corretto che al suo estremo è dannosa quasi quanto la supremazia razziale: ed è il motivo per cui, in un Paese che ha fatto di tutto per sentirsi colpevole del proprio passato, all’onore delle cronache balzi quasi sempre lo stesso tipo di avvenimento: l’uccisione di un nero da parte di un bianco.
E’ ciò che fa più scalpore, più notizia. E’ ciò su cui c’è più materiale pronto: ciò su cui si possono condire ore di televisione, pagine di quotidiani, dibattiti con uno sforzo ridotto e con un profitto massimo. Nel tentativo maldestro di aggiungere sempre qualcosa di nuovo, si arriva all’eccesso: non è più la eguaglianza di tutti ciò di cui si parla e al quale si aspira, ma si arriva a volere una sorta di colpevolizzazione di tutta una categoria di persone nei confronti di un’altra, soltanto perchè ciò porta un pubblico ed un profitto, polarizzando le opinioni.
Questo razzismo non discrimina: stereotipa. E’ quello che dagli anni ’80 fa morire i neri nei film horror per primi; è quello che rende gli orientali intelligenti ma socialmente inadatti; che porta i commentatori a definire “fisici” e “potenti” i giocatori neri e “tecnici” quelli bianchi; che relega al “ghetto” certe tendenze di stile, musica, cultura e lingua e ne ride; è quello che fa ancora vedere con un occhio malizioso una coppia mista. Non per forza esistono conseguenze tangibili, dannose per il singolo, di questo stato mentale – ma creano un substrato culturale dal quale è sempre più difficile uscire, e che anzi è volutamente mantenuto perchè crea profitto. E’ facile stereotipare, perchè non richiede impegno e non si manifesta con le discriminazioni classiche, che spesso portano conseguenze pesanti da parte di chi le mette in atto: ma non porta a ragionare; non invoglia a conoscere. Uccide la voglia di cogliere il meglio delle diversità: ghettizza la mente prima ancora del corpo.
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