E’ la leggenda che ci racconta di Iolao eroe, accompagnato da quarantuno tespiadi, che su richiesta dello zio Herakles prese il mare alla volta della Sardegna. Giunti presso le coste sarde il manipolo di guerrieri si dovette scontrare contro gli autoctoni, dediti sembrerebbe all’arte della guerra.
Le vittorie si susseguirono e permisero al gruppo di fondare alcune grandi città, prima fra tutte Olbia, che vennero poi adornate di grandi edifici alla maniera greca. Solo a questo punto la leggenda si ramifica, facendosi contorta. Una versione racconta che Iolao morto di vecchiaia sull’isola prese ad essere adorato dagli abitanti stessi che fondarono in suo onore un tempio, altra leggenda invece racconta che l’eroe, conquistata la terra sarda, affrontò ancora il mare e nuove avventure, lasciando l’isola ai tespiadi che si mescolarono alla gente del luogo e si impegnarono con questi nella lotta contro i cartaginesi.
Fin qui la leggenda; solo poi entra in gioco Aristotele che riporta di questi eroi mitici che dopo la naturale morte non vennero dalla stessa oltraggiati nel corpo, ma assunsero la parvenza di dormienti. Celebrati localmente, questi personaggi divennero prima eroi e poi antenati dalla genia sarda. L’informazione più interessante che Aristotele ci dà in merito a questo argomento è relativa all’abitudine dei sardi di recarsi presso le eterne dimore di questi antenati per curare mali diversi: l’ossessione, le visioni, o le possessioni d’anime maligne.
Il rito era alquanto semplice da ciò che ci viene tramandato. Per cinque giorni i malati riposavano a contatto con la terra, dormendo esattamente come i propri eroi. Nel sonno e grazie al contatto con quella mitica terra che ospitava i tespiadi in compagnia forse di Iolao, il male sarebbe stato curato.
In molti hanno immaginato che il male dovesse essere qualcosa di molto simile alla nostra epilessia e si è spesso tentati di far corrispondere questi luoghi di sepoltura e di cura, con le ancora oggi megalitiche tombe dei giganti.
E’ la loro stessa struttura a farlo pensare; erano dotate nella parte frontale, che ricorda una mezza luna o le corna di un toro, di panchine che avrebbero avuto senso d’esistere solo nel caso in cui anticamente qualcuno avesse avuto la necessità di riposarvi, di dormirvi magari, per curare i propri mali sotto la supervisione di chi conosceva i rituali e il potere degli antenati.
Scarterei l’opzione d’un sacerdote e sarei più favorevole per una presenza femminea, vista la forte connotazione matriarcale della società sarda. E’ probabile si trattasse di una sacerdotessa con il compito di vegliare sul sonno dei malati, garantendone la durata per cinque giorni. Nell’abbigliamento e nel portamento potrebbero somigliare alle molte figurine in bronzo ritrovate in tutto il territorio sardo, rappresentanti di una classe sacerdotale al femminile.
La presenza costante degli antenati nei pressi della sepoltura megalitica era garantita dalla presenza di un obelisco infisso nel terreno, detto sull’isola betile o pedra fitta.
Questo rituale tutto sardo è ricordato da Aristotele con il nome di incubatio e la connessione con il rituale greco è d’obbligo. Anche qui, a contatto con la terra nel delicato momento del sonno, si poteva entrare in contatto e comunicazione con gli dei. L’autore classico ci informa che interlocutore greco principale era il Dio Amphiaraos. Il sonno in prossimità della casa del Dio, consentiva ai suoi fedeli di ricevere sogni veridici.
E’ il principio ad accomunare i due riti: nello status di sonno l’anima del dormiente abbandona il proprio corpo, consentendo agli spiriti degli avi o alla divinità di invasare il corpo, curare dai mali o regalare sogni premonitori.
Sembrerà strano, ma ancora fino a pochi decenni fa qualcosa di molto simile era ancora praticato in Sardegna. L’uso di festeggiare il santo dormendo nei pressi della chiesa eretta in suo onore, a contatto con la terra e ospitati dalle cumbessias è probabilmente una prosecuzione del rito della incubatio. Riempita di significati cristiani, l’usanza non rompe la tradizione del contatto fra uomo e terra, madre curatrice.
Ma le similitudini non finiscono qui. Altro rituale che sull’isola si avvale del contatto con la terra che cura è l’imbrussinadura o imbrusciadura. Il male da curare è la possessione ad opera delle anime dannate che invasano l’individuo sfortunato. E’ tradizionalmente condivisa la credenza che un uomo, attraversando un dato luogo possa “raccogliere ombra”, per dirla in lingua “buddi umbra”.
La cura, l’imbrussinadura, prevede che l’uomo o la donna si rechino nel preciso punto in cui si è stati oggetto delle attenzioni della anime dannate e qui ci si rotolerà a terra secondo movenze ritualmente previste. Normalmente si tratta di tre giri su se stesso. Il rito è da ripetersi per tre volte, la mattina presto, a mezzogiorno e la notte.
Perché? Semplice. Non si può essere sicuri dell’orario nel quale ci si è “ammalati” e riproponendo il rituale nelle varie fasi della giornata si è certi di una totale copertura. Concluso il rituale ci si allontana, ovviamente senza voltarsi indietro mai a ricordo di un antico tabù.
Il rito potrebbe essere giustificabile con la logica dell’inversione. Rotolandosi si invertirebbe la situazione che da negativa potrebbe divenire di nuovo positiva, o più probabilmente con la logica della restituzione del male alla terra, terra che ammala, terra che guarisce.
Che poi il medesimo rito dovesse essere praticato dal toro uomo, s’erkitu, per acquisire ancora una volta la sua parvenza umana.. bhè questa è un’altra storia..