Un Philip Roth inatteso quello che ho incontrato leggendo Quando lei era buona.
Infatti in questo libro da lui scritto nell’ormai lontano 1967 c’è tanto di diverso dalle altre mie letture dell’autore americano; si tratta del suo terzo libro e forse ai tempi non aveva ancora trovato il suo filone personale.
La cosa che più differenzia questa storia da tutte le altre è l’evidente mancanza assoluta di personaggi di origine ebraica in tutto il libro; di quella che diventerà una costante nei lavori futuri ( almeno della decina da me letti ) qui non c’è traccia.
Evidente invece è la somiglianza strutturale con il suo libro forse più importante: Pastorale Americana.
In entrambi si raccontano le vicende di alcune famiglie americane di stampo classico, quelle tipiche degli anni cinquanta soggetto di tanti film e serie tv, nelle quali le tradizioni e le apparenze sono cosa prioritaria tra quelle da salvaguardare.
Siamo nel periodo post seconda guerra mondiale dove i protagonisti Roy e Lucy, lui ventenne con alle spalle due anni di servizio militare presso un contingente non in prima linea e lei studentessa in età tra high-school e college, si sposano per, come si diceva, salvare le apparenze e dare dignità e un possibile futuro a tutti in una società civile certamente piena di valori, ma anche decisamente bigotta e pronta a nascondere lo sporco sotto il tappeto.
Fanno da contorno alla vicenda principale numerose altre situazioni che creano un intreccio sempre più fosco e distruttivo per la psicologia di alcuni dei personaggi coinvolti: si può trovare una moglie che sopporta senza reagire le scorribande amorose del marito, un genero che si scopre essere alcolista, un nonno che prende fa le veci del padre, un’amica che cambia opinione a seconda di quello che dicono gli altri, ecc. ecc.
Niente di nuovo, ma anche niente di scontato: è la realtà dei tempi e Philip Roth si esprime in questo libro come un vero scrittore realista.
Esiste però un’altra differenza sostanziale con le altre mie letture di Roth, ossia il clima sempre più drammatico che si respira mano a mano che la storia prosegue.
Dopo una serie di alti e bassi, con situazioni critiche che almeno apparentemente vengono riequilibrate, e dopo un breve ma significativo momento di distensione che provoca nel lettore un certo rilassamento, la vicenda prende una piega sempre più drammatica come difficilmente mi era capitato di leggere.
Molti libri di Philip Roth hanno finali crudi e tragici e se ci si dovesse basare sulla vicenda pura e semplice allora non si avrebbero poi molte differenze tra un’opera e l’altra.
In Quando lei era buona invece è proprio la figura di quella lei che conta: il personaggio Lucy.
Da un certo punto del libro in avanti i pensieri e le elucubrazioni mentali di Lucy diventano ossessive e devastanti, sia per la rigida logica a cui si appoggiano, sia per le conseguenze fisiche e soprattutto mentali che comportano.
Viene alla mente A beautiful mind, il film di Ron Howard ( il Richie di Happy Days tanto per rimanere negli anni cinquanta ) con Russel Crowe che racconta la storia di John Nash e del suo problema mentale.
La logica dei pensieri di Lucy è la stessa già vista nel John Nash di quel film, con la differenza che la lettura avviene in tempi più lenti ed entra nella mente più in profondità di una scena video.
Questo bel libro di Philip Roth vale la pena di essere letto perché si differenzia dagli altri proprio in questo aspetto.
Tempo di lettura: 7h 51m