«Le carenze organizzative dei produttori sono il problema dei problemi»
Al termine di diciannove puntate sulle filiere agroalimentari tricolori, un dato emerge chiaramente: alcuni problemi si ripetono in quasi tutti i settori, mettendone a rischio la sopravvivenza. Un’organizzazione del tessuto produttivo arretrata, l’accesso al credito quasi impossibile e una preoccupante dipendenza dagli aiuti Pac.
Dal vino alle arance. Dall’olio al pesce. Dal mais al pomodoro. E ancora: carne, pasta, cioccolato, birra, miele, mele. Decine di ingredienti per un pranzo bizzarro e pantagruelico durato quasi due anni. Diciannove tappe per fotografare i lati più interessanti, quelli meno conosciuti e quelli più preoccupanti dei diversi settori dell’agricoltura italiana. Un tour che ha permesso di toccare con mano i punti in comune di molte filiere. Aspetti positivi da enfatizzare e lati negativi da risolvere.
Il pericolo frammentazione
Un fattore, più di altri, si ritrova in quasi tutti i settori agricoli: la frammentazione del tessuto produttivo. Problema cruciale perché riduce il potere contrattuale dei coltivatori e danneggia la loro capacità di confrontarsi alla pari con i concorrenti esteri, con poche eccezioni (il modello cooperativo dei melicoltori, ad esempio) e casi estremi come quello degli agrumi, in cui i 170 mila ettari di produzione nazionale sono divisi tra 126 mila aziende. «Le carenze organizzative dei produttori sono il problema dei problemi», osserva Dario Frisio, docente di Economia agraria e presidente della facoltà di Agraria alla Statale di Milano.
«In questo modo si è incapaci di far fronte alle richieste degli acquirenti, che chiedono standard qualitativi omogenei e continuità nella fornitura. Ed è quindi impossibile avere la forza necessaria a spuntare prezzi adeguati nel rapporto con la Grande distribuzione». In due parole, gli agricoltori sono price takers, cioè non possono influenzare il prezzo di vendita dei loro prodotti: «Se una famiglia non riesce ad arrivare a fine mese coltivando la terra – commenta Pietro Sandali, capo dell’Area economica di Coldiretti – c’è il rischio che l’abbandoni. E questo è un danno per l’intera collettività».
Una “polverizzazione” che riduce anche il livello di formazione dei coltivatori (spesso troppo piccoli per investire in ricerca) ed è aggravato da un problema di frammentazione amministrativa: «Il trasferimento alle Regioni delle competenze sull’agricoltura – prosegue Frisio – ha creato venti sistemi diversi, spesso molto burocratici, che ostacolano l’attività dei produttori, soprattutto nelle aziende di piccole dimensioni. Un sistema ormai incompatibile con i cambiamenti del mercato».
In questo scenario, s’insinuano due altri ordini di problemi: il costo della terra, che, a causa delle speculazioni edilizie e degli incentivi per l’agroenergia, ha superato quello di altri Stati e sta creando problemi per il costo degli affitti. E, soprattutto, l’accesso al credito. «Nelle regioni del Centro-Sud – spiega Sandali – ha toccato livelli assurdi. Ormai è roba da strozzini. La scomparsa del credito agrario poi ha complicato la situazione». Giungendo a un declassamento di fatto del merito creditizio delle aziende agricole. «Purtroppo in questo, l’agricoltura non è dissimile da molti altri settori produttivi», aggiunge Frisio.
Ad essere peculiare è invece la dipendenza dagli aiuti comunitari: i famosi premi Pac per alcuni settori sono indispensabili per portare i ricavi al di sopra dei costi e garantire un minimo di remunerazione ai produttori. Un caso su tutti: le aziende zootecniche, per le quali i contributi Ue garantiscono fino al 30% del reddito. La riforma in discussione a Bruxelles per gli anni 2014-2020 potrebbe rappresentare una mannaia per molti produttori.
Qualità e territorio
In uno scenario a tinte spesso fosche, non rimane che consolarsi con gli aspetti positivi che pure ci sono, anche se, da soli, non bastano a mettere al riparo l’agricoltura dalla concorrenza estera e dalle speculazioni: «Le nostre sono indubbiamente produzioni di qualità, che nel tempo hanno incrementato il valore aggiunto per ettaro (vedi tabella), tanto da portare l’Italia ai vertici Ue da questo punto di vista», osserva Sandali («Ma ancora esportiamo le nostre eccellenze a prezzi più bassi della media estera», replica Frisio).
Non solo qualità, però. Perché l’agricoltura italiana ha anche un’altra freccia nel suo arco. Una geografia tanto diversa, da Nord a Sud, garantisce, infatti, la possibilità di avere molti prodotti tipici, caratterizzati localmente, che possono diventare un volano per lo sviluppo di un territorio. «Il rapporto tra qualità e territorio è un elemento fondamentale delle produzioni alimentari – prosegue Sandali –. Ricordiamoci che già oggi il marchio Made in Italy è il secondo per notorietà dopo la Coca Cola».
Ma forse, senza un deciso cambio di rotta nell’organizzazione e nella remunerazione dei produttori, avere tra le mani eccellenze invidiate a livello planetario è troppo poco. «La situazione agricola è fatta da molte ombre e poche luci – ammette Frisio –. Se non si riesce a risolvere presto i problemi c’è il rischio di una crisi diffusa che, in coincidenza con il ricambio generazionale, porterà molti ad abbandonare la terra o a optare per investimenti speculativi. Il riordino fondiario sarà obbligatorio tanto quanto una riorganizzazione delle strutture aziendali. Obiettivi da raggiungere attraverso misure a sostegno di chi rimarrà nel settore, in modo da fargli attivare adeguate economie di scala. Servono interventi rapidi. O rischiamo di arrivarci quando sarà troppo tardi».
BIRRA
In Italia, dove il vino continua a far da padrone, i consumi interni sono ancora bassi, ma intanto siamo il 10° produttore Ue, superando Stati di grande tradizione brassicola come Danimarca e Irlanda. Quasi 13 milioni di ettolitri prodotti nel 2010, 350 stabilimenti, quattromila addetti e un fatturato da 2,5 miliardi. E accanto alla filiera principale, una miriade di micro birrifici che stanno incontrando i palati dei bevitori più esigenti: dai 4 del 1996 sono saliti a 385 nel 2011.
CIOCCOLATO
A un italiano togliete tutto ma non il cioccolato: i numeri sono in crescita nonostante la crisi, sia nei grandi marchi sia tra i prodotti artigianali. 429 mila tonnellate di prodotti a base di cacao sono stati realizzati nel 2010, per un controvalore di oltre 4 miliardi. Vincente si è rivelata la scelta di puntare sulla qualità e non sulla concorrenza a basso costo. Come anche di costruire rapporti diretti tra cioccolatieri e coltivatori del Sud del mondo per avere materie prime eccellenti e prezzi equi.
MELE
Altre filiere frutticole guardano a questo settore con malcelata invidia. Merito della scelta, costruita con tempo e fatica, di riunire le migliaia di piccoli produttori in pochi grandi consorzi. Risultato: siamo leader in Europa, le esportazioni sono cresciute di quasi il 50% in 10 anni, i coltivatori hanno maggiore potere contrattuale con la grande distribuzione. Unico neo: la standardizzazione di coltivazioni e gusti mette a rischio la biodiversità. Su 900 tipi di mele, l’80% della produzione è divisa tra sole cinque varietà.
MIELE
Non è un bene primario, ma il miele resiste alla crisi. Anzi cresce: la produzione è a quota 10 mila tonnellate annue, per un controvalore di 35 milioni di euro. Gli apicoltori sono ormai 75 mila. I ricavi riescono a coprire senza troppi problemi i costi, soprattutto grazie alla diffusione della vendita diretta, un canale scelto da un consumatore su tre. I pericoli: la concorrenza sleale della Cina che immette sul mercato miele a prezzi stracciati e l’uso dei pesticidi che nel 2007 ha dimezzato gli alveari.
AGRUMI
L’esempio tipico di quanto male possa fare la frammentazione dei coltivatori: nonostante la produzione e i consumi crescano, i costi superano i ricavi per buona parte delle 126 mila imprese. La grande distribuzione può di fatto imporre il prezzo, spesso acquistando le arance in altri Stati mediterranei meglio organizzati. La ricetta anticrisi passa per l’unione dei produttori, riduzione degli anelli della filiera e riconversione biologica, che accresce il valore di prodotto del 50%.
PESCE
Abbiamo ottomila chilometri di coste ma importiamo gran parte del pesce che mangiamo. La produzione italiana è scesa del 12% in sei anni e gli occupati sono calati da 34 a 29 mila unità. Colpa di una filiera troppo lunga e polverizzata (13 mila cooperative di pescatori senza alcun potere contrattuale), 800 punti di sbarco senza servizi adeguati. Intanto i ricavi sono legati al prezzo del gasolio: se sale troppo, i margini di guadagno evaporano.
POMODORI
La produzione è crollata del 30% negli ultimi dieci anni e tremila aziende su diecimila hanno chiuso i battenti. I prezzi di vendita sono spesso insufficienti e i rapporti con le catene di distribuzione non aiutano a formare prezzi equi. Cresce l’importazione di prodotto estero, spesso di qualità più bassa fino al dumping – sociale, ambientale e sanitario – del pomodoro cinese superconcentrato: 200 tonnellate ogni giorno arrivano via mare, in crescita del 200% in due anni.
ZUCCHERO
Dal 2006 la produzione italiana è diminuita del 66% e gli zuccherifici sono passati da 19 a 4, per effetto di una ristrutturazione della filiera imposta dall’Unione europea che ha ridotto le quote, per aumentare la produttività e sostenere i prezzi. 5 mila gli addetti in esubero. Per chi è rimasto, i margini sono cresciuti. All’orizzonte però c’è l’abolizione totale del sistema delle quote, che esporrebbe le nostre aziende alla concorrenza mondiale e alla totale volatilità dei prezzi.
DIPENDENZA DALLA CHIMICA DEBOLEZZA NASCOSTA DELL’AGRICOLTURA MODERNA
C’è un punto debole, ma nascosto, che accomuna, trasversalmente, tutte le filiere agroalimentari passate in rassegna. Un “bug” che, sul medio periodo, rischia di essere una bomba ad orologeria per la nostra agricoltura. Ma gli stessi coltivatori spesso non ne conoscono l’esistenza. In termini tecnici si parla di “depauperamento del suolo”. In parole povere si può spiegare così: i nostri terreni agricoli sono ormai totalmente dipendenti dall’uso dei prodotti chimici che li rendono fertili. Senza il loro uso, far crescere verdura e frutta sarebbe (quasi) impossibile. Un esempio su tutti: la Pianura Padana. «Se andiamo a calcolare il suo tasso di sostanza organica – spiega Stefano Pescarmona, docente di Orticoltura ecologica all’Università di Scienze gastronomiche di Pollenzo – è in media dell’1,6%.
Con quella percentuale si parla ufficialmente di terreni in via di desertificazione». Colpa di un uso decennale di sostanze chimiche per aumentare le produzioni e contrastare gli agenti patogeni. Che ha però prodotto due conseguenze preoccupanti: i terreni e gli agenti patogeni si sono assuefatti, costringendo ad aumentare l’impiego della chimica in agricoltura. E, in più, ha fatto smarrire agli stessi contadini la conoscenza ecologica che li ha guidati per secoli. «Purtroppo – prosegue Pescarmona – da almeno mezzo secolo si è perduta la consapevolezza che il suolo è un organismo vivente e quindi ne devono essere rispettate le caratteristiche». Il rischio (che ormai è spesso una certezza) è di peggiorare la qualità dei prodotti, aumentare l’inquinamento ambientale (in primis, l’aumento di consumo idrico), perdere una volta per tutte la biodiversità.
Senza considerare i danni per la salute umana. Una via d’uscita ci sarebbe: reimpostare le filiere agroalimentari secondo i principi dell’agricoltura biologica e biodinamica. «Se usati con criterio – conclude Pescarmona – questi metodi di coltivazione permettono al terreno di recuperare la propria fertilità e di allentare la dipendenza da prodotti chimici. Purtroppo più si va avanti sulla strada sbagliata più sarà difficile intraprendere un cambio di rotta».