L’accettazione dell’individuo sottoposta ad una prova di qualche tipo è stata alla fine sdoganata anche nelle pubblicità delle famigliole da sempre considerate perfette e perfettamente felici. E così, lo stesso bambino che da piccolo è costretto a portare le brioches agli amici per “essere dei loro”, magari da grande avrà bisogno delle scarpe alla moda e della cintura costosa per avere la speranza di far parte del gruppo e di non essere vessato in spogliatoio all’ora di educazione fisica. Allo stesso modo, la ragazzina un po’ insicura, quando cresce e smette di giocare con le bambole, quando comincia ad uscire con le amiche il sabato pomeriggio, potrebbe sentire il bisogno di avere la stessa borsetta firmata delle amiche, o una più bella, così da attirare lo sguardo ammirato, o, perché no, persino invidioso. Perché forse non si sente la più bella, magari nemmeno la più simpatica o la più intelligente, ma essere à la page può sembrare una cura efficace, oltre che semplice. Ma il fenomeno non investe soltanto i teenager: sorprendentemente, anche fra le colleghe al lavoro, fra le mamme che aspettano i figli fuori da scuola, fra gli amici in palestra, l’occhio scrutatore tende a soffermarsi sui loghi, prima ancora che sul nuovo taglio di capelli o sui centimetri in meno al girovita.
Lo stile è avere coraggio delle proprie scelte, e anche il coraggio di dire di no. È gusto e cultura.
Le vittime della moda, i fashion victim, per dirla con l’azzeccatissimo neologismo coniato da Oscar de la Renta, sono ovunque e nessun ambiente viene risparmiato. Ecco che allora, indipendentemente dall’età, per restare nel gruppo, per sentirsi accettati, la soluzione sembra rinvenibile nel possedere accessori di marca, a tutti i costi, piuttosto che una marcata personalità. Ma è davvero così semplice adornarsi di accessori di valore? Il possesso dei tanto desiderati simboli dello status sociale da raggiungere non è per niente economico, cosicché mostrare di essere alla moda e socialmente appetibili sarà facile per chi i mezzi li ha, ma quasi impossibile per chi ricco non è. Nasce in questo modo il mercato della contraffazione, pensato per chi, come si dice, vorrebbe, ma non può, o per chi vorrebbe, ma non ritiene sensato spendere un paio di stipendi medi in una borsa griffata, oppure per chi semplicemente preferisce un accessorio da usare senza tanti pensieri, senza la paura di perderlo o rovinarlo o di essere derubato. Nasce per soddisfare un bisogno diffuso, per rispondere ad una domanda di mercato sempre più pressante. Forse perché la crisi, da anni ormai, continua a graffiare il nostro portafoglio, oltre che le nostre vite. Forse perché la televisione e i giornali ci bombardano giornalmente di slogan sull’importanza di apparire, prima che sull’importanza di essere, cosicché fermarsi alla bancarella abusiva al mercato, o fermare i “vù cumprà” in spiaggia, o cliccare pagine su pagine in internet alla ricerca della borsa che “sembra vera” risulta normale e naturale. Non viene nemmeno da domandarsi se sia giusto, o meno. A chi si potrebbe mai far del male, acquistando un oggetto contraffatto?
In verità, gli effetti negativi del fenomeno sono molteplici e incidono su differenti interessi, pubblici e privati (per un’analisi accurata si rimanda alla relazione della Guardia di Finanza). La contraffazione provoca, innanzitutto e direttamente, un danno economico per le imprese regolari, dovuto principalmente alla diminuzione delle vendite e alla riduzione del fatturato, ma anche alle rilevanti spese sostenute per la tutela dei diritti di ingegno e proprietà industriale. Le imprese, infatti, devono sostenere annualmente elevatissimi costi per registrare i brevetti delle nuove produzioni, i quali vengono semplicemente bypassati da scaltri produttori e rivenditori dei finti prodotti, i quali rappresentano una vera e propria concorrenza sleale. Se poi il prodotto falsifica un marchio italiano, tanto peggio: il Made in Italy dovrebbe essere il nostro fiore all’occhiello, l’orgoglio di una nazione che nella moda è brava e per la quale è famosa nel mondo, uno degli ultimi baluardi per resistere alla crisi economica. A riguardo, secondo la ricerca Mise – Censis del 2014, “La contraffazione: dimensioni, caratteristiche e approfondimenti”, nel 2012 gli italiani hanno speso sul mercato interno 6 miliardi e 535 milioni di euro per l’acquisto di merci false. La stima dell’impatto della contraffazione sull’economia italiana mostra che se fossero stati venduti gli stessi prodotti sul mercato legale, si sarebbero avuti 17,7 miliardi di euro di valore di produzione aggiuntiva, con conseguenti 6,4 miliardi circa di valore aggiunto (corrispondente allo 0,45% dell’intero PIL italiano). Si consideri poi che la produzione degli stessi beni in canali ufficiali avrebbe richiesto circa 105 mila unità di lavoro a tempo pieno, pari a circa lo 0,44% dell’occupazione complessiva nazionale. Se le cifre sono da considerarsi attendibili, non sarebbe stata una bella risposta alla crisi, puntare sui nostri prodotti, invece di spendere in falsi? I quali, fra l’altro, provengono per la maggior parte da mercati internazionali: acquistando il “tarocco”, si vanno ad ingrassare le economie straniere, impoverendo, di contro, quella italiana. Tra queste, in particolare, secondo gli ultimi dati europei dell’attività di contrasto alla contraffazione, effettuata dalle Dogane dei Paesi membri, pubblicati dalla Taxation and Customs Union della Commissione Europea (reperibili qui), la Cina è il paese da cui proviene la maggior parte di beni sequestrati, con una percentuale che si aggira attorno al 66,2% del totale (segue, a distanza, Hong Kong, con il 13,31%). Tuttavia, a parer mio, tali stime provengono da un’assunzione di base un po’ troppo semplificata: si suppone infatti che la borsa falsa sia diretta concorrente della rispettiva borsa originale. È difficile credere, però, che la scelta sia tra acquistare l’originale e acquistare il falso: più probabilmente, se il falso non fosse disponibile, la scelta ricadrebbe su un bene simile, magari di un’altra marca, di valore uguale o poco superiore al tarocco. Perciò ritengo che le cifre menzionate siano una buona base per rappresentare il problema, ma credo anche che andrebbero ritoccate un po’ verso il basso.Inoltre, come conseguenza delle vendite in nero (qual è il venditore abusivo che emette scontrino fiscale?), si ha un danno all’Erario pubblico attraverso l’evasione dell’IVA e delle imposte sui redditi. Il che si riflette, indirettamente, sulle tasche di tutti noi contribuenti: l’imposta rappresenta, infatti, un’obbligazione cosiddetta “di riparto”, vale a dire che la spesa pubblica italiana viene ripartita (in base a specifici criteri) fra tutti i contribuenti. Se un contribuente non paga la parte che gli spetta, per il principio dell’indisponibilità dell’obbligazione tributaria, essa viene ripartita fra tutti gli altri contribuenti, aggravando la situazione degli stessi. Morale: le tasse che non paga chi produce e vende prodotti contraffatti, le pagano tutti gli altri contribuenti, fra cui gli stessi che con i loro acquisti alimentano il mercato nero della contraffazione, creando un circolo vizioso.
Se ciò non bastasse a porsi qualche domanda, la contraffazione provoca anche, e soprattutto, un danno sociale di tipo criminale, connesso cioè allo sfruttamento di soggetti deboli (in maggioranza cittadini extracomunitari), assoldati attraverso un vero e proprio racket del lavoro nero. A queste persone, fra cui molti bambini, non vengono garantite le condizioni minime di sicurezza sul posto di lavoro, di frequente rappresentato da fabbriche lager o dalla strada, né, tantomeno, coperture assicurative, sanitarie e contributive. Si potrebbe opporre che anche grandi marchi sono stati coinvolti in passato da scandali relativi alle condizioni dei lavoratori, per lo più asiatici, loro dipendenti. Non sembra tuttavia un valido motivo per giustificare un comportamento malavitoso che investe tanto la fase di produzione quanto la fase di vendita. Anzi, anche in questo caso siamo di fronte ad una sorta di contraffazione, ad una sfumatura dello stesso fenomeno, si potrebbe dire. Se la casa di moda produce in paesi esteri, sfruttando leggi sul lavoro più favorevoli, costi del lavoro più favorevoli, al limite della legalità o della morale comune, sottraendo lavoro alla manodopera qualificata (perché meno conveniente), per poi apporre semplicemente sul prodotto finito il marchio che garantirebbe, in teoria, la produzione nel paese d’origine, allora osserviamo una sorta di truffa nei confronti del consumatore, la quale andrebbe contrastata dai governi e dalle associazioni di categoria tanto quanto la contraffazione stessa. Inoltre, sembra lecito chiedersi anche se per caso i grandi marchi non tendano ad applicare sui propri prodotti un differenziale tra prezzo e costo di produzione (cosiddetto, mark-up) un po’ troppo elevato. Se da un lato è sbagliato comprare il falso che costa poco, dall’altro lato è giusto pagare l’originale dieci (o più) volte il suo valore? Forse la proliferazione della contraffazione dovrebbe suonare come campanello d’allarme per le grandi firme, le quali potrebbero valutare l’ipotesi di diminuire il prezzo di vendita dei beni, così da renderli più accessibili (il che, di conseguenza, potrebbe aumentarne le vendite) e scongiurare un acquisto del falso che potrebbe, a volte, rappresentare una sorta di protesta pacifica da parte dei consumatori. È vero anche, però, che l’accessorio di lusso nasce proprio come accessorio “non per tutti” e renderlo più accessibile significherebbe snaturarne la sua essenza, un tratto distintivo fra i più importanti. Ancora, di frequente si osserva l’investimento di elevati profitti ricavati dalla falsificazione in attività delittuose: si pensi all’edilizia abusiva e al traffico di droga e armi. Infatti, è facilmente immaginabile come solo una piccolissima parte dei guadagni rimanga nelle tasche degli ultimi anelli della filiera, i quali rappresentano soltanto la punta dell’iceberg, mentre la maggior parte della ricchezza guadagnata resta nelle mani di chi tira i fili dell’intero traffico.
E se proprio di coscienza non si vuol sentir parlare, allora è il caso di considerare il rischio di ricevere una sostanziosa multa, qualora si acquisti merce contraffatta. Certo perché se da un lato comprare un bene ad un decimo del suo valore può sembrare un affare, dall’altro lato, oltre a vedersi confiscare il prodotto acquistato, “è punito con la sanzione amministrativa pecuniaria da 100 euro fino a 7.000 euro l’acquirente finale che acquista a qualsiasi titolo cose che, per la loro qualità o per la condizione di chi le offre o per l’entità del prezzo, inducano a ritenere che siano state violate le norme in materia di origine e provenienza dei prodotti ed in materia di proprietà industriale” (Art. 1, comma 7, D.L. 35/2005, disponibile qui). I sequestri e le multe, tuttavia, pur rappresentando in teoria un forte deterrente all’acquisto illegale, non possono rappresentare da soli la soluzione definitiva al problema. Si dice, infatti, “fatta la legge, trovato l’inganno”. I venditori in spiaggia, ad esempio, hanno iniziato ad organizzarsi, girando fra gli ombrelloni con dei semplici cataloghi fotografici della merce in vendita, per concludere poi le trattative in luoghi appartati e più sicuri. Per questo motivo, lo Stato, le Regioni e anche i comuni, perfino i più piccoli, hanno lanciato campagne di sensibilizzazione che hanno il sapore di vere e proprie battaglie culturali, finalizzate ad estirpare alla radice un sistema malato ed incivile.
In conclusione, che sia per il nostro bisogno di appartenenza, che ci faccia sentire realizzati, belli, osservati e invidiati, che si tratti di una semplice questione di gusti o di disponibilità economica, che sia per la nostra insicurezza, o solo per vanità, vale davvero la pena correre un così grosso rischio, per portarsi addosso, letteralmente, una così grande responsabilità?