QUARTET (UK 2012)
Ci sono film sulla vecchiaia e film sulla vecchiaia. Alcuni sembra che siano lì a dirti quanto sono carini, teneri e malinconici i vecchietti, che per il solo fatto di avere rughe e capelli bianchi meritano tutto il nostro amore e il nostro rispetto, anche se poi magari sono persone insopportabili (cfr. A spasso con Daisy, A proposito di Schmidt ecc.). Altri, invece, ti sbattono in faccia tutta la verità, lo squallore e la tristezza dei titoli di coda della vita, e di tenerezza, spesso, non presentano traccia alcuna (cfr. Gli spietati, A simple life ecc.). Quartet, ambientato in una casa di riposo per anziani musicisti, fa parte, ed è un peccato, della prima e meno interessante categoria.
Ma ovviamente di questa pellicola si è parlato, più che per il suo contenuto (che alcuni hanno trovato “sublime”, “un inno alla vita” – o almeno così dice la locandina italiana: roba che ti farebbe passare la voglia di vedere qualsiasi film), per il fatto che si tratta dell’esordio alla regia dell’incommensurabilmente grande attore Dustin Hoffman, a mio personalissimo avviso l’interprete più geniale della sua generazione: cioè, avete mai visto Piccolo grande uomo, Lenny e Cane di paglia? Ecco, niente a che vedere. Per la sua prima fatica dietro la macchina da presa, il vecchio (pure lui: c’ha 75 anni suonati, sebbene non li dimostri) Dustin ha optato per un un classico quanto superfluo film all’inglese, pieno di argute battutine (che doppiate non fanno per niente ridere), forte di un buon cast (protagonista è Maggie Smith: e chi se no?) e dall’elegante mise en scène. Molto prevedibile e scontato lo sviluppo narrativo (con tanto di riconciliazione finale dei due protagonisti e proposta di matrimonio di lui a lei), così come la scelta delle musiche (persino io, che non sono certo un melomane, ho riconosciuto praticamente ogni singola nota).
Che strano! Che strano che un attore, anzi, una star del calibro di Dustin Hoffman, che avrebbe potuto tranquillamente riprendere per due ore un uomo seduto sul cesso attirando comunque l’attenzione di pubblico e critica, abbia scelto di dirigere un film così dimenticabile, banale, impersonale – per quanto non malvagio. Persino Bronx, mediocre esordio alla regia (nel 1993) di Robert De Niro, che a Hoffman contende lo scettro di attore più celebrato degli anni Settanta, dava e dà tuttora in qualche modo l’impressione di aver qualcosa in più da dire, rispetto a Quartet. Ma d’altronde anche altri mostri sacri della recitazione come Jack Nicholson (Il grande inganno), Robert Redford (Gente comune, Leoni per agnelli, La regola del silenzio) e Al Pacino (Riccardo III, comunque il più originale e sperimentale del lotto) hanno spesso dimostrato che un grande attore non è necessariamente un grande regista. Mica son tutti Orson Welles, eh!
Alberto Gallo