Quello che sta accadendo in Val di Susa andrebbe, a mio parere, descritto come ciò che non si deve fare in nessun caso all’interno di un movimento che voglia raggiungere un qualsiasi risultato. Mi riferisco in particolare a tre episodi: il primo è il ragazzo che insulta ripetutamente un carabiniere, il secondo è l’aggressione, a cui non è seguita alcuna scusa, di una troupe del corriere ad opera di 40 militanti, e in generale al clima di diffidenza che si è creato nei confronti dei mezzi di informazione. Io capisco ed in parte condivido i motivi che stanno alla base delle mobilitazioni in Val di Susa, e proprio per questo non riesco a contere il disappunto per quello che è un errore tanto grave da poter, in sè, mettere a repentaglio l’intero movimento, a spese di chi ci mette la faccia tutti i giorni. Non possiamo dimenticare che siamo nella società dell’apparire: quello che esiste non viene inteso per quello che è realmente, ma per l’immagine che i mezzi di comunicazione ne danno. Rifiutare questa dinamica allontanando la stampa da sè e, in certi casi, aggredendola con l’accusa paranoica di fare “spionaggio” a favore della polizia, vuol dire non essere coscienti della conformazione sociale e politica dei tempi che stiamo vivendo, essere immersi in un passato ideologico. Bisogna parlare ai media, spiegare le proprie ragioni, far capire il proprio punto di vista: così si riusciranno a coinvolgere più persone nella propria battaglia. Se ci si isola a priori, si perde in partenza.
Vorrei prendere come esempio i moti rivoluzionari che abbiamo potuto osservare nei mesi scorsi nel Maghreb, così come quelli che stanno avvenendo in questi giorni in Siria: in questi casi, con pochissime eccezioni, i media sono stati invitati e protetti, per quanto possibile, dalle cosiddette forze “ribelli”. Non è un caso. Essi, con un’astuta mentalità politica, sapevano benissimo che l’accattivarsi le simpatie dei media era una condizione necessaria, seppur non sufficiente, alla buona riuscita delle loro azioni. Non è un caso nemmeno il fatto che il potere costituito veda i giornalisti come un obiettivo, come un nemico: basta guardare il numero di giornalisti uccisi nei mesi scorsi durante queste rivolte. Chi sa di essere nel torto uccide i giornalisti perchè ha paura del loro potere, ovvero quello di raccontare una verità scomoda, che può modificare la tendenza dell’opinione pubblica nei confronti di una protesta, anche violenta. Quello che sfugge a chi vede i giornalisti come un nemico è che in generale la gente non ha paura della violenza in sè, ma ha paura della violenza che appare essere gratuita, insensata. Saper parlare coi media significa soprattutto poter spiegare il perchè di un atto violento, che può diventare lecito nel momento in cui il motivo che sta alla base di esso è chiaro agli occhi di chi lo sta osservando.
Mettere a tacere i media significa decidere che il pubblio non deve sapere, o se vuole sapere deve farlo attraverso i mezzi di comunicazione che il movimento utilizza: ma questo presuppone uno sforzo che il cittadino medio non compie, perchè non è abituato a pensarlo. Egli si basa su quello che i mezzi di comunicazione di massa gli presentano come realtà dei fatti, e bisogna entrare in questi canali se si vuole che la propria versione sia garantita e diffusa. Proprio perchè i media non possono mai essere totalmente obiettivi, esiste una possibilità di influenzarli in senso positivo, convincendo chi racconta la protesta che essa viene fatta in nome di ideali che sono più umani, più giusti di quelli che la politica persegue nel momento in cui reagisce e manda la polizia. Se si decide a priori di ignorare l’esistenza del quarto potere, esso non può che rivolgersi proprio contro chi agisce come se non esistesse.