la serie Wallander
Dicono che, quando uno scrittore affronta un personaggio seriale, abbia dalla sua diversi vantaggi (quello, ad esempio, di non dover ricostruire ogni volta un ambiente, dei comprimari, il protagonista stesso, e così via). Tutto sommato, sono vantaggi che valgono anche per il lettore, che non deve affaticarsi troppo ad incasellare i differenti personaggi o a capire perché ogni volta che entrano in una casa, questi si tolgono tutti le scarpe. Dopo i primi due romanzi, capisci che gli allegri svedesi sono fatti così. Poi c’è il fatto che, se appena appena è un tipo decente, al protagonista ti ci attacchi anche, ed è quello che succede con il povero Wallander.Dico “povero” così, per un’impressione generale che ti rimane dopo aver letto di lui che va, viene, è accoltellato, gli sparano, divorzia, litiga, c’ha il nervoso, si innamora, viene piantato, ha il padre che rompe, ha il padre che muore, la figlia forse balenga forse no, viene sgridato dai superiori, viene ripreso dai superiori, e così via.
Insomma, un tizio normale che è diventato protagonista di una decina circa di libri.
Onde per cui o lo mandi a quel paese dopo il secondo, o ti ci affezioni.
Io mi ci sono affezionata, a lui e alle sue indagini, a volte interessanti a volte no-io-sis-si-me (l’ultima, altro che ‘inquieta’, è stata un pacco mica da ridere). Quelle interessanti sono parecchie, comunque, e raccontano di una Svezia non certo da cartolina, con i suoi problemi, l’avanzare di una delinquenza ‘moderna’ anche in una cittadina tutto sommato tranquilla come Ystad, la gestione politica che lascia a desiderare, le persone che si perdono tra povertà, problemi di lavoro, pressioni sociali varie e persino, voilà, razzismo.
Se penso che il primo romanzo della serie è stato scritto più di vent’anni fa, mi verrebbe da chiedere che cosa caspita mai sarà diventata la Svezia adesso (“Era però sicuro che la vita si sarebbe fatta sempre più dura. Che vi sarebbero state sempre più persone emarginate, sempre più giovani che non avrebbero ereditato altro se non la percezione di non esser necessari. Sbarre, recinti e mazzi di chiavi sempre più grandi avrebbero caratterizzato gli anni a venire”, tratto da “Delitto di mezza estate”, del 1997).
In ogni modo, complimenti a Mankell che ha retto così tanto tempo in modo tutto sommato piacevole, coerente e interessante. I suoi libri si leggono davvero di corsa (ma non sto facendo un apprezzamento negativo, eh!), sono bei libri estivi che ti fanno dimenticare i lavori e le relazioni ancora da finire, la casa da pulire e i gatti nuovi che fanno la pipì sul divano.
Perciò, grazie.
Dopodiché, alcune cose seriali o meno, serie o meno, che mi hanno colpito.
Della situazione svedese, che non è un paradiso come a volte si pensa, già dissi.
C’è solo il fatto che Mankell-Wallander lo fa notare spesso. Non te lo fa mica dimenticare. Solo in “Piramide”, ogni quindici, venti pagine, si riflette sul fatto che “Sta succedendo qualcosa in questo paese. È arrivata una nuova forma di violenza”. “Che cosa stava succedendo? Nella società svedese si era improvvisamente creata una spaccatura sotterranea. I sismografi più sensibili l’avevano registrata. Ma da dove veniva? […] Alla sua base c’era una violenza sconosciuta”. E via così.
Perdoni tutto perché, comunque, spesso tutto ciò è ben detto, ben descritto (a me la metafora del sismografo applicato agli esseri umani, è piaciuta, ad esempio).
In più, non so, mi son fatta l’impressione che in Svezia sia come stare in Lombardia: nebbia fitta d’inverno, zanzare grandi come elicotteri e più di 30° in estate: ci son libri che facevano boccheggiare anche me che ero qui ad aspettare lo scoppio del caldo e invece dovevo mettere il maglione: là, Wallander non riusciva a dormire per l’afa. No, per dire gli stereotipi.
Anche se in Svezia fa pure freddo, eh, ora non pensate subito male: lo si nota perché Wallander invece se lo dimentica sempre e ogni due per tre scopre di non essere coperto abbastanza (o non ha il maglione giusto, o non ha la giacca, o ha le calze troppo leggere, o piove come Dio la manda e lui non ha l’impermeabile).
Altri due elementi seriali li svelo senza svelare niente. Primo: Wallander ha le intuizioni: cioè, si ricorda sempre di aver visto qualcosa di significativo ma non sa mai che cosa (“C’era qualcosa che avrebbe dovuto capire, un collegamento che continuava a sfuggirgli, ma c’era, ne era sicuro”, “Quando si fermò davanti alla sua casa molte ore dopo, non capiva ancora che cosa gli fosse sfuggito”, e così via), e, secondo: Wallander pensa alla vecchiaia.
Ora, mi piacerebbe fare un giro in Svezia soltanto per dare un’occhiata all’età media degli abitanti: perché quando il poliziotto arriva in una casa e gli apre una donna anziana e dopo due pagine scoprite che la donna anziana aveva circa 50 anni; e quando Wallander comincia con la solfa: e io divento vecchio, i figli crescono, i papà invecchiano, cosa sarà di me, e scoprite che ha 40 anni, e poi uguale quando ne ha cinquanta e poi quando ne ha cinquantasei e la sua vita è finita (secondo lui), ecco, qualche domanda sull’età media degli svedesi vi viene spontanea, no?
Poi, terzo seriale, Wallander ha un caratterino, ma si vede che Mankell aveva poche battute per spiegarlo: pensate a uno che entra in ufficio, trova qualche brutta notizia, prende il telefono e lo strappa dal muro, fili e tutto, poi si gira verso il collega sulla porta e fa: “Sì, dimmi, quando c’è la riunione?” e l’altro: “Oh, guarda, alle tre” (secondo me era alle due, ma il collega gli è preso il cagotto e ha fatto finta di niente).
E così via, e così via. Non me li sono segnati tutti, i punti in cui, di colpo, bàm, gli viene il nervoso e si mette e sbraitare, picchia pugni nel muro, picchia pugni sul naso di qualcuno, poi, s-bàm, tutto passato, andiamo avanti, passami un biscotto, non è successo niente. Insomma, simpatico, ma da starci attenti,eh.
Poi ci sono le cose tipo: “dall’espressione del suo volto, si capiva che era successo qualcosa di importante” e io sono stata lì davanti allo specchio a fare l’espressione del “è successo qualcosa di importante”, ma non ce l’ho fatta; oppure quando “le tasche vuote erano una chiara conferma di un atto di violenza” (eh?); e i congiuntivi che, soprattutto in certi romanzi, viaggiano per conto loro, come le virgole.
Vabbè, si sopporta. Perché comunque poi Mankell regala alcuni paragrafi davvero memorabili:
- sul “modello Ystad”: “in altre parole, come ottenere grandi risultati con risorse minime. Questo risultato sarà considerato come una prova che il corpo di polizia svedese non è per niente a corto di personale. Inoltre, lo useranno come prova del fatto che ci sono troppi poliziotti che si intralciano l’un l’altro…” (“L’uomo che sorrideva”): sostituite poliziotti con professori, corpo di polizia con scuola, e avete il modello Gelmini (che per altro non credo sia in grado di leggere nemmeno i libri di Mankell);
- sull’aumento della capacità di preoccuparsi, man mano che cresce l’età: “Quello era un lato del suo carattere che, con il passare degli anni, diventava sempre più forte e predominante. Si preoccupava di tutto. Si preoccupava perché lei era andata a Tallin, si preoccupava di potere ammalarsi (sic!), si preoccupava di rimanere addormentato [...] Senza motivo, si circondava di nuvole minacciose” (in “La falsa pista”); ho cominciato a capire mia madre, e anche un po’ me stessa, che mi avvio su quella strada;
- sulla povertà: “quella non siamo mai riusciti a debellarla. Era come se fosse ibernata dietro tutte le facciate. E adesso, quando i successi sembrano essere temporaneamente passati e lo stato sociale subisce attacchi da tutte la parti, la povertà ibernata, la miseria familiare, tornano alla superficie [...] Quando abbiamo fatto saltare in aria la vecchia società, dove le famiglie erano ancora unite, ci siamo dimenticati di sostituirla con qualcosa d’altro. Non sapevamo che il prezzo pagato sarebbe stata la grande solitudine” (sempre “La falsa pista”);
- sulla (fantastica) filosofia del rammendo delle calze: “C’erano persone che resistevano continuando a rammendare le proprie calze. Ma erano talmente in minoranza che nessuno le prendeva in considerazione. Finché si era trattato solo di calze, il cambiamento in sé non era coì marcato. Ma l’usa e getta si è rapidamente diffuso a tutto. Alla fine è diventato una filosofia, una sorta di morale invisibile per quello che è giusto e per quello che è sbagliato, per quello che si può fare al nostro prossimo e quello che non si può. La vita è diventata molto più dura. Sempre più persone, e i giovani come te in special modo, si sentono inutili e persino sgraditi nel proprio paese. E come reagiscono? Con aggressività e disprezzo. La cosa che mi fa più paura comunque è che credo che siamo arrivati all’inizio di qualcosa che ci sta portando a un ulteriore peggioramento. La generazione che sta crescendo oggi, quelli più giovani di te, reagiranno in modo ancor più violento. E nel loro bagagli di ricordi i tempi in cui si rammendavano le calze non esistono proprio. I tempi in cui non buttavamo via né calze né esseri umani”. (“La quinta donna”)
l’esistenzialista Branagh-Wallander
Così, proprio pensando alla filosofia del rammendo delle calze, perdono a Mankell le ultime pagine dell’ultimo Wallander (comprese di entrata a gamba tesa dell’autore stesso), e lo consiglio a chi è disposto a passar sopra a certe incongruenze o scivolate, ma intanto vuol godersi delle buone investigazioni nella (spesso assolata) Svezia.Se poi volete immaginarvi Wallander con la bella faccia di Kenneth Branagh, fate pure, è ancora meglio.