di Maria Letizia Cipriani
L’Alfieri fin da piccolo mostra di avere un’indole appassionata. Credo che i motivi, i quali lo abbiano spinto, all’età di otto anni ad un tentativo di suicidio, debbano riferirsi ad una sua istintuale tendenza alla malinconia, peggiorata, purtroppo, da alcuni fattori esterni o ambientali, come si direbbe oggi.
L’episodio, per la sua stravaganza ci fa sorridere, se non anche ridere: il bambino Alfieri aveva sentito dire di un’erba chiamata cicuta “che avvelenava e faceva morire”. Il piccolo era quasi del tutto ignaro di cosa fosse allora la morte, ma istintivamente, in un momento di tristezza, si mise a mangiare dell’erba, credendola – nella sua immaginazione – della cicuta.
Ne seguì solo un disturbo digestivo di una certa entità. Al piccolo venne perciò somministrata una medicina e un … “gastigo”: per più giorni fu tenuto rinchiuso in camera.
Questa assurda e crudele punizione ottiene l’effetto contrario nell’animo del fanciullo, bisognoso invece di affetto e di comprensione: (peggiora perciò in lui “l’umor malinconico”). A quel tempo né maestri, né genitori erano informati sulla psicologia “evolutiva” e il comportamento dei “grandi” metteva in risalto la loro indiscussa “autorità” a discapito – purtroppo – di chi aveva veramente bisogno di spazi per poter crescere e migliorare in un clima sereno e intelligente.
L’Alfieri ha un modo tutto suo di esprimere i suoi sentimenti, spesso d’indignazione, qualche volta di approvazione. Nel racconto dei suoi numerosi viaggi, man mano vengono fuori le sue osservazioni. Non disprezzava il popolo, da quel che mi è sembrato di capire, solo perché esso si lasciava “tiranneggiare”. Non dimentichiamo che Vittorio Alfieri era un aristocratico e non solo per nascita: lo era soprattutto nell’animo, era quel che si può ben dire un animo “nobile” sotto ogni aspetto. Mentre spesso il popolo (basta ricordare l’episodio della “plebaccia” alla Barriére Blanche di Parigi), non solo mostrava in talune circostanze un comportamento ignobile, ma ignobile lo era anche per una certa ignoranza di fondo, per quella mancanza di rispetto e di qualche capacità di valutazione verso quelle persone che veramente mostravano un certo valore.
Purtroppo la divisione delle classi sociali c’è sempre stata, e le classi meno favorite hanno sempre nutrito una qualsivoglia ostilità (specie durante la Rivoluzione francese) verso quelle classi a loro confronto “privilegiate”.
Il pensiero politico dell’Alfieri esprime anche – secondo me – una sua idealità, ma questa idealità non ha potuto collimare con gli eventi storici. La società, non solo aveva già un suo dato clichè nell’assetto governativo, ma all’interno della società, certe istituzioni bisognava pur che stessero in piedi, come poi è sempre stato. Egli si è sempre schierato contro qualsiasi tirannia, ma qualora fossero avvenuti dei cambiamenti e delle riforme e dei governi, li avrebbe sempre visti come una tirannia. Non è mai stato un democratico, perché una delle caratteristiche del suo pensiero era “l’individualismo” così personalizzato da prendere universalmente il nome di “individualismo alfieriano”.
Tra alcune delle sue opere, risalta l’ironia suscitata in particolare da tre commedie, i cui titoli dicono già molto: “L’Uno”, “I Pochi”, “I Troppi”. “L’Uno” rappresenta la Monarchia assoluta, “I Pochi” un governo oligarchico e per l’appunto d’élite ed infine “I Troppi” dove potrebbe valere il detto “Troppi galli a cantar non si fa mai giorno”; “I Troppi” tratta di un governo democratico, la cui sperimentazione, in quel lontano Settecento, sarebbe stata certamente immatura e utopica.
La sua avversione all’ “universal caserma prussiana”, può avere delle radici remote, per il fatto che lui sia entrato in una Scuola Militare alla tenera età di nove anni, uscendone poi all’età di diciassette. Una adolescenza davvero “sui generis” per un “libertario” di tal fatta. Ma, ovviamente, il motivo di fondo del suo “orrore” verso la milizia prussiana era la considerazione che, alla fine, i soldati fossero al servizio del tiranno come base dell’autorità arbitraria, perciò considerava il mestiere militare di per sé “infamissimo”.
Ugualmente nel suo viaggio in Russia (come in Prussia), i grandi personaggi in quel tempo al potere, non lo suggestionavano per nulla. Non va dimenticato che l’Alfieri era uno spirito libero e onestissimo e non avrebbe mai fatto l’inchino alla “grande Caterina II”, che egli riteneva per quello che veramente era: l’assassina di suo marito Pietro III.
L’appellativo di “codesta Clitennestra filosofessa” da lui coniato è molto significativo in proposito.
È evidente che l’Alfieri, in quella società regale o imperiale che fosse, non sarebbe mai stato un “leccapiedi” come si dice oggi. Ed avrebbe rifiutato qualsiasi mecenatismo da parte di quei sovrani che lo avessero “usato” come un perfetto alibi alle loro prepotenze.
Potrei supporre che la critica e l’avversione – da parte dell’Alfieri – a quelle forme di governo assoluto, vogliano significare come una critica agli “abusi” del potere. Va altresì considerato quanto nel suo pensiero fosse grande il concetto di Libertà, per cui ogni tipologia di governo, il quale fosse stato un attentato costante all’ideale di Libertà, generava in lui una profonda avversione.
Maria Letizia Cipriani