Julian Zhara
Di SONIA CAPOROSSI
La poesia di Julian Zhara non potrebbe essere concepibile al di fuori della propria dimensione performativa, laddove con questo sintagma intendiamo più precisamente la performance che avviene non soltanto sopra un palco o sotto i riflettori di un poetry slam, ma anche nell’auscultazione interiore di un recitativo intimo e personale da parte del lettore/fruitore, in virtù dell’istanza primigeniamente musicale della poesia in quanto tale: questa convinzione ermeneutica non è un’affermazione priva di riscontro, non deve essere anapoditticamente data per buona, giacché è sufficiente scorrere i versi materici e sanguigni di questo giovane poeta ultracontemporaneo per rendersi conto di quanto la fonesi offra il principio di determinazione alla sensazione, di quanto, in una parola, la versificazione in se stessa si faccia comunicazione e metacomunicazione proprio in quanto ῥυϑμός vivente e proliferante sugli zampilli armoniosi dell’arsi e della tesi. Scrive in questo senso il poeta: “Quando ho iniziato a sperimentare sul possibile sposalizio tra poesia e musica e qualche mp3 a poeti che stimavo e stimo l’ho mandato, la risposta ecumenica era sempre e la solita: dovrei leggere il testo… Cosa che mi è accaduta, sempre e solo con poeti, anche durante esecuzioni live, di quei testi. Mi sono immaginato gli stessi poeti chiedere di dare un’occhiata alla sceneggiatura all’uscita dal cinema, non entrare a teatro se non hanno il testo sotto mano, ancora meno in un teatro lirico.”
In realtà, l’autonomia del significante, per dirla con Beccaria, è concentrata interamente nell’assunzione, estremamente pregna di poeticum, che la poesia consista nella perfetta fusione fra l’istanza musicale e quella verbale (invito il lettore a rileggere su Versante Ripido un mio vecchio editoriale intitolato Le meccaniche terrestri: una riflessione estetica sul nesso tra poesia e musica, per dipanare con maggiori fondamenti teoretici la questione). Quella di Zhara, infatti, non è poesia che possa accontentarsi della semplice lettura solitaria nell’angolo più riposto della propria stanza, al contrario, è poesia che sospinge e incalza, che vuole uscir fuori, essere declamata, decantata come un vino buono nella caraffa della degustazione, urlata a tratti come uno slogan, non foss’altro che a mezza voce, non foss’altro che a bocca chiusa.
Certo, quanto al contenuto, pur con le dovute differenze di stile (nonostante Zhara indulga in una maggiore sperimentazione ritmica e sonora rispetto al più prosastico Cattaneo) i quattro componimenti inediti che presentiamo su Critica Impura hanno quel qualcosa del virile giovanilismo stoned proprio tipico di Simone Cattaneo, per intenderci, nella loro secca e scabra messa a nudo della delusione e dello spaesamento delle nuove generazioni, sullo sfondo sociale, insieme spiazzante e spiazzato, di questa nostra Italia renziana che cala le braghe davanti alla crisi. Una crisi che nei versi di Zhara gocciola sul pavimento lucido dell’autoconsapevolezza e della disillusione, calandosi in personae (più o) meno bergmaniane, in archetipi fissi dell’immobilità e del senso di impotenza di questa generazione ultracontemporanea, imagines deformi che eruttano il disincanto dei propri doposbronza ottenebrati nella quieta senescenza giovanile evocante il crepuscolo di un’era, quella dell’Italia da bere, un’Italia intera, da Trieste in giù, fattasi Milano (e Milano sembra un poco, nei versi di Julian, la sua cara Venezia, grigia e plumbea ancorché adorata, mai nominata in queste quattro poesie ma sempre sullo sfondo, col suo odore fognato di laguna anch’essa immobile e stantia e contemporaneamente lo scintillio fastoso della ricchezza baroccata e taroccata che fu); l’Italia è come un immenso doposbronza di cui è rimasta solo la pepsina nello stomaco e l’acido gastrico, e dei fasti berlusconiani del Drive In e delle Veline non è rimasto più nulla. Non c’è, nei versi di Zhara, alcuna speranza rimasta all’uomo se non l’urgenza di versificare, un’urgenza incalzante perché feroce, feroce perché talmente disumana da risultare più che umana e meno che umana allo stesso tempo, come sempre accade nelle impellenti necessità connaturate ad ogni forma di dipendenza. Parafrasando Baudelaire, il poeta è un drogato di versi, d’amore e di virtù, a vostra scelta.
Per questa giostra terrestre di denuncia insieme esistenziale e sociale che è la poesia, occorreva un urlo smozzicato nel silenzio, un grido stralunato e stanco, straziato e straniante, antiestetico perché non anestetico, come quello di Simone Cattaneo, come quello di Julian Zhara. Anche Zhara, infatti, è un urlatore silenzioso, un guappo del verso, uno che conosce e adopera ad arte il linguaggio dei segni in quanto semiosi dell’humanum.
Di JULIAN ZHARA
L’elefante nella stanza
E io raschiavo i fondali del loro sguardo
interdetto a piene mani,
a piedi congiunti mi ci tuffavo
pronto sempre a fendere indicazioni superiori.
A priori, tutto là dentro
era già definito a priori,
il perimetro delle mansioni:
una filiera di cassonetti aperti in chiave di
fa-bene-che-anche-io-al-posto-suo-farei-lo-stesso,
io al posto suo ho imparato a stare.
Eravamo il gesto ripetuto allo sfinimento
come una masturbazione secolare
di un apparato che non riesce a venire, andare,
e resta appartato nell’immobilità.
Più degli altri percepivo la mia figura distorta
come un tendine infiammato di quel braccio
di ferro storico, rimasto in solitudine
con ruggine e latta di olio
sotto un cielo di mosche e lezzo.
Da un bel pezzo avevo smesso di proiettare
la mia vita sulla facciata dell’anno seguente.
Rimanevo così, inebetito dalla pausa pranzo,
l’aperitivo, ferie a casa davanti al televisore,
non trovavo più alibi all’incedere delle ore
e quando la sera, ero vittima di un leggero tremolio
di giunture, accendevo una canna, poi due,
alla terza le mie paure si trasformavano in vuoto
a due ante, l’armadio si allargava a ospitare
l’elefante nella stanza, ormai stanco
di farmi compagnia, il pusher l’indomani
mi avrebbe procurato del loto,
non mi sarei presentato,
ero troppo affezionato alla mia vigliaccheria.
La carne termometra
Devo dare un ritmo a quest’attesa che mi spreme,
mi succhia il regolare battito del cuore.
Sdraiato sul pavimento, accendo una sigaretta, ipnotizzato
dal flusso del fumo fino al soffitto
e me ne sto come cosa implosa,
paralizzato,
col cervello informicolato,
sospeso su una bolla di lava interiore,
come fossi moltiplicato,
l’ultimo a abbandonare la festa del suo funerale;
sbatto su muri frutto di anni di lavoro,
mi sfascio la testa e mi lascio sanguinare
sciolto nel rivolo di rosso freddo che imbratta il volto
portandolo al di là del vetro.
Svaniscono le lancette, lentamente,
nell’orifizio spazio-temporale dei sogni,
tabacco imperversa a bruciare, protagonista
del rogo che più metafora è lembo
marcio di carne screpolata,
sono la cicatrice dove s’annidano le croste del trapassato.
Arrivo all’ultimo tiro, profondamente
aspiro l’ultima boccata di catrame
finché arrivo al filtro e la bronsa continua
a bruciare tra le grida dei colpevoli
di questa processione tardo-medioevale,
io gioco, gioco a fare la carcassa di tabacco
che brucia in bocca e sparisce,
guardo l’ultimo vagito del corpo
che tengo tra le dita,
prendo il filtro nel suo canto
del cigno che muore col ghigno
di chi muore e non è mai nato,
di scatto lo spengo sull’avambraccio
e tremo, e chiudo gli occhi,
precludo la torsione muscolare in un urlo muto
piango lacrime di libertà che scorrono
il viso, il parquet di legno,
pago il pegno col destino
offrendo l’umore più raro,
dopo anni finalmente ritorno
a piangere per un motivo chiaro.
Ad Alessandro Burbank
Vedi amico, ciò che ci impaglia alla scrivania
a picchiettare i polpastrelli ormai in carne viva,
altro non è che un segno d’uguaglianza, abrasione
da asfalto, condannati a perimetrare a piedi
le periferie del giorno dopo, intaccando
educatamente il mondo, negli aperitivi
dove anche il cielo sembra spruzzato di Campari
e denti con altri denti iniziano una danza
speculare, ed è tutto un ritardare il ritorno
e non rimane che il ritardo in fondo all’ultimo,
per poi andare verso, calciando bottiglie rotte
addosso ai sogni, i cocci esplodere nel vuoto.
Fuga in minore
Quelle chiazze prugna che ti abitano il corpo
affittate all’equivoco dei tuoi sogni infantili,
dagli attori dei film preferiti, ammaliata,
sotto lenzuola strette tra i denti,
argini contorta torrenti di carezze,
esalando vapori, espirando vocali
sul tuo grembo e sussurri e ti gratti che il prurito
più dolce non spalanca il sorriso, l’abisso rispecchi.
Le sillabe alitate all’orecchio delle amiche
le converti in fraseggi una domenica pomeriggio,
il parcheggio di una zona industriale ti avvita
e l’incastro funziona, il meccanismo ti è lieve,
sfogliata da dita imbevute di saliva
liberi farfalle, doni il sangue per un pugno di baci
iniziati come ondine e schiantati su scogliere;
un faro t’inonda le maniglie di fiotti di luce.
La tua vita da lì l’hanno scritta altre mani
clandestine di chirurghi, nocche d’artrite,
uno sputo a lavarti il peccato dalla pelle.
La finestra ti dirige la soluzione verticale,
mentre al water confidi il tuo pasto di dolore
mentre il cuscino ti dimostra che non passano le ore:
l’orizzonte si dilata del tuo umore oscurato.
Una mattina le nuvole sussurrano conforto,
il rispetto ha un prezzo, non si paga col rimorso,
la maniglia di ferro a stringerti le mani,
la sofferenza senza anestesia redime, diceva
tuo padre, tua madre sorrideva, il piacere
di sottrarti dal dovere di portare alla luce
il germe dei tuoi incubi. Tu zitta a fissare
il bulbo del tuo primo amore nuotare
dentro l’opaco vetro dei sottaceti.
Non più silenzio a coprirti le spalle
ma cristalli di ghiaccio a incidere, ferire;
e la schiena bambina farsi palcoscenico
dei burattini di paese, dell’indice peloso
che ti disegna stilizzata. Un mattino
ti raccogli e voti l’uscita con lo zaino
di scuola unico testimone, saluti la cucina
che del riso rimane il biancore del sale.
Il salvadanaio a pezzi in mezzo alla stanza,
tra lo stereo, le cassette della band preferita,
intonando un motivo, sei partita per sempre.
Nostalgia e attesa parallele sui binari,
la stazione dei treni conta i rimpianti,
ospitale a chi non ha niente da dire,
e le strade si confondono coi sogni col cinema,
troppo in alto da cogliere troppo in basso per star fermi
a guardare negli occhi la propria vertigine.
Su un dirupo tasti il polso agli uomini soli,
un lampione non può consigliare di meglio,
hai imparato che l’amore non si cela in frequenza,
hai imparato che è difficile soffrire davvero.
Mentre guardi i palazzi di fronte adesso
l’ambulanza che passa ma non è per te,
un contratto diverso ti ho promesso e il mio nome
non è quello che ti ho detto, ti pende un perché
dal ghigno che ti strappa dal corpo la vita.