Nel corso della storia umana è capitato più volte di vedere gli animali (anzi, gli altri animali: non dimentichiamo che apparteniamo al regno animale anche noi) alla sbarra. Dal pappagallo monarchico al merlo sovversivo, non si contano le storie di imputati “speciali”, regolarmente dotati di avvocato.
L’epoca d’oro – si fa per dire – dei processi agli altri animali non poteva che essere il Medioevo. Qualche eco è arrivata fino a noi. Un esempio? La chiesa di Falaise, in Francia, custodisce l’affresco della pubblica esecuzione per strangolamento di una scrofa infanticida, avvenuta nel 1336. Nei processi, in genere, il problema delle difficoltà di comunicazione tra specie e specie veniva affrontato con modalità non particolarmente favorevoli al reo: secondo i criteri dell’epoca, negli interrogatori si usava infatti la tortura, e le grida dell’animale venivano equiparate a confessione. Allo stesso modo, nei processi per bestialità, l’animale che dimostrava di riconoscere l’uomo era considerato per questo consenziente.
Un problema più complesso era quello dei complici: erano da considerare tali gli animali che avevano assistito al misfatto senza impedirlo? Sì, fu la tesi del pubblico ministero a un processo che si tenne in Borgogna il 5 settembre del 1379 contro tre scrofe che avevano ucciso un malcapitato pastorello. Da giustiziare era dunque tutta la mandria. Poiché però le carni degli animali condannati a morte non potevano poi essere utilizzate a scopo alimentare e la mandria era comunale, il rischio concreto era quello di lasciare l’intero villaggio di Jassey senza rifornimenti invernali. E così il priore fece un ricorso al duca Filipo l’Ardito, ottenendo una grazia di massa.
I tempi bui non sono tuttavia finiti con la fine del Medioevo. Infatti, se Victor Hugo ci narra della capretta di Esmeralda, processata per stregoneria con la sua proprietaria, Voltaire riferisce di un cavallo giudicato per reati analoghi nel 1610 per colpa di un padrone che gli aveva insegnato esercizi un po’ troppo complicati e che sfuggivano alla comprensione dei contemporanei.
Non si deve pensare che questi imputati fossero privi di giuste garanzie formali, al contrario! Certo, molto dipendeva, come oggi, dall’avvocato… Nel 1545, ad esempio, un processo in Savoia contro un branco di cavallette, citate in giudizio per i danni che stavano provocando alle coltivazioni fu bloccato dall’ostruzionismo di un avvocato difensore ostinato a richiedere l’assoluzione dei suoi assistiti “per incapacità di intendere e volere”, fino a che gli accusati non ebbero finito di divorare tutto il divorabile, rendendosi in seguito contumaci. E quando quarantadue anni dopo il problema si ripresentò, anzi, il nuovo legale propose addirittura il non luogo a procedere per non presenza di reato.
“Iddio creò gli animali prima degli uomini e a tutti, ragionevoli e irragionevoli, concesse il diritto di cibarsi sulla terra conformemente alla propria natura. Non li avrebbe creati senza il diritto di usare liberamente della vita! E le piante non furono create perché servissero agli animali?”, disse nell’arringa difensiva, con alcuni spunti di notevole modernità. Il Comune decise allora di assegnare alle bestiole un campo apposito perché si sfamassero senza danneggiare gli uomini, ma l’avvocato chiese una perizia giudicando il terreno non adatto alle loro esigenze. Nelle maglie della causa le cavallette ebbero di nuovo il tempo di squagliarsela.