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Que viva Sagalassos

Creato il 26 settembre 2012 da Filelleni

Que viva SagalassosApre oggi a Catania, al Monastero dei Benedettini, una mostra di foto strepitose dello scavo di Sagalassos, antica città nella Turchia sud-occidentale dove lavora da un paio di decenni una missione archeologica dell’Università di Leuven. La mostra fa da contorno al convegno biennale dell’associazione internazionale Rei Cretariae Romanae Fautores, dal titolo “From broken pottery to lost identities in Roman times“, attualmente in corso a Catania per iniziativa dell’Istituto per i beni archeologici e monumentali del Consiglio nazionale delle ricerche (Ibam-Cnr). Il direttore dell’Istituto, Daniele Malfitana, collabora infatti da tempo con la missione belga a Sagalassos.

Que viva SagalassosHo visto le foto giorni fa quando Daniele mi chiese di scrivere un saggio per il catalogo della mostra: ho scritto subito, tutto d’un fiato, colpita all’istante dalla forza comunicativa che scaturisce da quelle immagini. Riporto qui sotto il mio scritto, che dice senza mezzi termini quanto quelle foto sappiano condensare lo spirito del luogo e le sue storie passate e recenti. Con buona pace dei guru contemporanei che gridano alla morte della fotografia professionale e dei fotografi. Non moriranno come non moriranno i giornalisti: la tecnologia può aiutare ma non potrà mai soppiantare la professionalità vera.

Non ho mai visitato Sagalassos ma ne ho sentito parlare molto. Sin dall’inizio dello scavo, gli archeologi belgi hanno dato grande importanza alla comunicazione del loro lavoro, coinvolgendo sempre grandi professionisti. Hanno prodotto film e realizzato mostre, stimolato l’interesse della stampa di tutto il mondo e raccontato interattivamente lo scavo su blog. Col risultato straordinario di una diffusione planetaria del nome Sagalassos: un esempio da imitare. Così quando finalmente anni fa, dopo tante voci udite, ho visto il film “Sagalassos, la cité oublieée”, ero colma di aspettative. Un po’ deluse, a dire il vero. Facevo parte della giuria del festival romano del cinema di archeologia, dove il film su Sagalassos giungeva già pluripremiato. Vinse anche a Roma per giudizio unanime ed entusiasta del pubblico, benché la giuria “tecnica” non fosse molto d’accordo. Noi speravamo di apprendere qualcosa in più sulla città, la sua storia, sul perché della sua importanza, mentre il film sorvolava sulla storia per soffermarsi invece sulla quotidiana fatica degli archeologi nel riportare alla luce l’antica città. Mostrava ricercatori con cazzuola o computer alla mano, restauratori intenti a ridare splendore a monumenti solo fugacemente descritti, persino i momenti di pausa per il pranzo o il tè. C’era insomma tutta la vita in uno scavo che noi “tecnici” conosciamo bene e che ci pareva quasi superfluo mostrare in un film, di cui pur ammiravamo l’alta qualità cinematografica. Ma sbagliavamo. Perché in quel film il pubblico non ha visto solo il risultato del lavoro dell’archeologo ma il suo farsi. Ha finalmente capito cosa fa esattamente un archeologo tutto il santo giorno, compresa la pausa pranzo. Grazie a quel film, l’archeologo si è spogliato della sua aura di mistero, di cui ampiamente gode presso i comuni mortali, per “farsi uomo”, se mi è consentita l’espressione. Quel film era l’anti-Indiana Jones per eccellenza, e al pubblico è piaciuto ancor più di Indiana Jones.

Continuo tuttavia a credere che il film manchi di qualcosa. Non si può disgiungere il lavoro del ricercatore dal suo risultato: perché è fondamentale far capire come si è giunti alla scoperta, portare il pubblico a rivivere la fatica e le emozioni della ricerca, ma bisogna anche rivelare il fine di cotanto lavoro. La grandezza e l’importanza di Sagalassos nei secoli, non possono mai essere elementi secondari di un racconto. Né può esserlo la terra di Sagalassos, il paesaggio, la gente che oggi la vive. Ogni lavoro si fa in un luogo specifico e mai in astratto. E il luogo, con le sue specificità concrete, è in tutto e per tutto la vera forza del racconto. Deve emergere, da un racconto, che si sta calcando passo dopo passo una terra, proprio quella terra. Ho visto tutto questo nelle foto di questa mostra. Le immagini di scavo di Bruno Vandermuelen e Danny Veys, parlano di fatica e serietà nel lavoro, e l’emozione della scoperta non traspare dai volti della gente ma dai marmi emersi (le statue colossali degli imperatori, immagino) che risaltano in primo piano. La foto ha attribuito a ciascuno, persone o cose che siano, il proprio compito principale. Mentre nelle immagini di paesaggio, le rovine paiono sorgere dalla terra come i soldati di Cadmo: si distinguono come opera dell’uomo, ma al contempo rivelano quanto siano inscindibili da quella terra montana aspra e immensa. Quelle nicchie votive ai piedi di un’alta parete di roccia paiono proprio dire “io appartengo al monte e a nient’altro”. E così pure l’ampia via lastricata che va verso il nulla montano. E il contadino, colto in una pausa del suo lavoro. E l’operaio. E la donna velata di un bassorilievo. Tutte, nessuna esclusa, sono solo parti di un insieme inscindibile che è la terra di Sagalassos. La stessa terra che emerge potente nelle ceramiche fotografate da Giovanni Fragalà. È grazie a quella terra secca che Sagalassos ha prodotto e venduto ceramiche a mezzo mondo di allora. Anche in questo la terra è la sua forza. E la nitidezza delle foto di Fragalà ce la fa percepire da tutti i suoi pori. Come pure ci fa percepire la potenza delle molte immagini che l’uomo ha plasmato con quella terra, che siano dei, eroi, animali o semplici decori geometrici. Par quasi di toccarli. Più che toccarli: si ha l’impressione di cogliere il loro senso più recondito. O almeno un qualche loro segreto. Quel che alla scienza moderna è sovente precluso ma all’arte forse, in qualche caso rarissimo, docile si rivela.

Effe



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