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“Quei là postadi al mur. Cantata per Malga Zonta.”: il racconto della Resistenza tra dialetto e musica.

Creato il 23 agosto 2011 da Ilcasos @ilcasos
“Quei là postadi al mur. Cantata per Malga Zonta.”: il racconto della Resistenza tra dialetto e musica.

Una delle due foto scattate prima della fucilazione alla malga Zonta

La notte del 12 agosto 1944 a Malga Zonta, caseggiato di montagna nei pressi di Folgaria (Trento), si consumò uno degli episodi più tragici e allo stesso tempo più discussi della Resistenza fra vicentino e trentino: nel corso di un rastrellamento i tedeschi incapparono nella formazione partigiana guidata da Bruno Viola detto ‘il Marinaio’. Dopo una serie di scontri a fuoco gli uomini del Marinaio vennero catturati. Furono fucilate 17 persone, di cui 14 partigiani e 3 civili.

In occasione del 67° anniversario dell’eccidio il collettivo artistico-musicale “Abele di Babele” (Gabriele Zobele, autore di racconti e poeta, e Alessandro Boratti, musicista e compositore, entrambi di Rovereto ma da anni attivi a Bologna) ha presentato a Folgaria il 14 agosto lo spettacolo Quei là postadi al mur. Cantata per Malga Zonta.

Trattandosi di un progetto “dal basso” che propone un altro modo di raccontare la storia, li abbiamo incontrati per conoscere meglio il loro progetto e le possibilità che la musica e il teatro possono offrire a chi si occupa di ricerca storica.

Parliamo con Gabriele e Alessandro per capire meglio il loro progetto e il percorso che hanno fatto per arrivare a questo spettacolo. Come è nato Abele di Babele e quali sono i vostri progetti?

Gabriele: Abele di Babele nasce da un’intesa fra me e Alessandro. L’idea di partenza che avevo era quella di sperimentare a livello acustico le mie poesie e di farne qualcosa con la musica e ad Alessandro interessava il progetto. Il nostro non è un collettivo stabile, siamo sostanzialmente noi due e di volta in volta ci avvaliamo di altre collaborazioni.

Gli obiettivi del nostro lavoro sono venuti maturando con l’esperienza pratica: inizialmente si trattava di una “semplice” lettura con musica, successivamente il progetto si è andato evolvendo nell’idea di far interagire le parole con la musica, cercando di contaminare i due ambiti in maniera reciproca. Ci piace l’idea di lavorare con queste due strade assieme: parole che si incontrano (e contaminano) con il ritmo, usando per esempio la canzone vera e propria o parole in una struttura pseudo musicale, o semplicemente accostando le due cose, con una poesia letta con un sottofondo o una musica cui poi si va ad aggiungere il testo.

Prima di capire meglio il vostro spettacolo cerchiamo di inquadrare meglio la vicenda dell’eccidio, come molti episodi della Resistenza, purtroppo non molto conosciuto fuori dall’ambito locale.

“Quei là postadi al mur. Cantata per Malga Zonta.”: il racconto della Resistenza tra dialetto e musica.

Il monumento a piramide eretto a malga Zonta nel 1946

G: La vicenda è complessa, per questo motivo, paradossalmente, partirei dalla fine per arrivare poi all’inizio. L’eccidio di Malga Zonta è la fucilazione di 14 partigiani e 3 civili – secondo le ultime ricostruzioni storiche- da parte di soldati tedeschi che durante il rastrellamento nella zona di Passo Coe li trovarono per l’appunto all’interno di questa malga la mattina presto del 12 agosto del 1944. I partigiani si trovavano in quel posto, come ricordo nelle prime battute dello spettacolo, principalmente per due motivi. In primo luogo aspettavano un lancio di armi da parte della RAF (Royal Air Force, l’aviazione britannica) che avrebbe dovuto esserci il 13 o il 14 agosto; lancio che si rivelava necessario per armare le reclute che stavano arrivando in sempre maggior numero nella zona del vicentino. In secondo luogo perché i partigiani della Malga erano guidati dal comandante Negro, in precedenza operante a nord ovest di Schio (Vicenza), che era stato dislocato in questa zona a causa di una controversia con un’altra banda, che aveva reso necessario un loro trasferimento.

La situazione in cui si trovavano i partigiani del Veneto era in quel momento molto particolare e “confusionaria”: vi era da una parte un massiccio arrivo di reclute non armate e dall’altra una fase di riassestamento all’interno delle dirigenze della Resistenza veneta, in quanto il PCI di Padova stava portando avanti un cambiamento nei comandi delle bande partigiane per avere una situazione politicamente più uniforme e quindi con una struttura più agile. Questi due fattori però stavano destabilizzando la tenuta dell’organizzazione, cosa che poteva ingenerare possibili disordini ed errori.

Dico proprio queste cose in quanto l’errore fu centrale nella vicenda di Malga Zonta; le vittime difatti erano anche state avvertite del rastrellamento: i partigiani però si sentivano al sicuro nella zona grazie a un posto di blocco a Passo Coe e una postazione con mitragliatrice nelle loro vicinanze. Si trattò invece di un vero e proprio disastro: consultando i diari della resistenza, ad esempio, mi son trovato di fronte anche ad una certa incredulità da parte degli autori sul perché si fosse creata questa situazione e sul perché la mitragliatrice non avesse sparato.

Naturalmente a questa catena di problematiche organizzative si affiancò anche lo scarso armamento dei partigiani guidati dal Marinaio e la possibilità che gente del luogo -fascisti probabilmente- abbia dato delle informazioni ai tedeschi.

Arriviamo così allo spettacolo. Cos’è quindi Cantata per Malga Zonta e cosa vi aspettate che da questo progetto possa nascere?

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G: Cantata per Malga Zonta è un progetto che ambisce a riflettere e a far riflettere su un episodio storico; alla base di quest’ambizione vi è però il modo in cui questa vicenda è stata vissuta in questa zona e come da noi è stata percepita. La stampa locale non ha mai smesso di discuterne, spesso cadendo in facili revisionismi: i problemi che ruotano attorno alla memoria di Malga Zonta sono dovuti certamente a come negli anni se ne è parlato , ma anche alla presenza di molti punti oscuri nella vicenda stessa. Il nostro lavoro non vuole essere perciò una lettura “appassionata”, quanto invece una concretizzazione dei nodi problematici legati alla lettura di quell’episodio. Per fare un esempio, da parte nostra c’è la volontà di non sorvolare sulle zone oscure di questa storia -contestate tanto da chi parla dell’eccidio come di un atto di eroismo quanto da chi lo considera frutto di incoscienza-, ponendole a perno della narrazione e rendendole in parole e musica.

Alessandro: Lo spettacolo si apre e si chiude con la descrizione delle due foto esistenti dell’eccidio di Malga Zonta, in cui sono ritratti i partigiani appena prima della loro fucilazione. Il titolo stesso dello spettacolo allude all’elemento visuale che funge da motivo di partenza per la storia raccontata. Abbiamo così un rimando all’iconografia ufficiale e tradizionale dell’eccidio, ma allo stesso tempo, rifacendosi proprio a quelle foto, ci si distanzia dall’evento come fatto in sé. Noi intendiamo partire da quelle fotografie e da quello che le fotografie evocano: non solo il fatto quindi, ma anche la discussione che dalla vicenda è partita e che da quelle immagini è simbolizzata.

“Quei là postadi al mur. Cantata per Malga Zonta.”: il racconto della Resistenza tra dialetto e musica.

La seconda foto scattata prima della fucilazione

Come vi siete mossi per raccontare questa vicenda e quali sono state le vostre scelte, sia di ricostruzione dei fatti che artistiche? In che modo avete lavorato sul materiale a disposizione per rendere il fatto storico spettacolo?

G: Per parlare dei partigiani di Malga Zonta mi son dovuto confrontare innanzitutto con la percezione che dei partigiani si aveva nelle zone in cui operavano. Ho cercato anche di trattare quest’episodio della lotta partigiana, cercando di ricorrere il meno possibile all’epopea della Resistenza; da parte mia vi è stato il tentativo di “demistificare” questa retorica, rendendo i fatti più umani possibile, rendendo così anche gli errori di quelle persone possibili in quanto frutto di un’esperienza umana, alla cui base però stava un’operazione di coscienza, di impegno, in quel momento assolutamente tangibile.

Il dialetto infine è una delle grosse scelte del progetto, visto che non avevamo mai fatto nulla così: la mia scelta del dialetto non è stata dettata da una volontà mimetica rispetto a quell’esperienza, visto che fra l’altro quei partigiani erano vicentini, quanto invece dal mio interesse per chi riceve la rappresentazione più che per la rappresentazione in sé. Come dicevo prima alla base dello spettacolo vi è la visione trentina di questa storia della guerra di Liberazione.

A: Dal punto di vista musicale ho cercato di muovermi lungo tre linee guida.

La prima è una concezione anti-museale del canto popolare, di cui parleremo in seguito. La seconda è quella di usare il più intensamente possibile il minimo materiale possibile, lavorando quindi su pochi elementi attinti dalla tradizione o creati in uno stile simil-tradizionale, che nello spettacolo vengono continuamente rielaborati interagendo da una parte con orchestrazioni sempre diverse e dall’altra attraverso la continua interazione reciproca; in poche parole, queste cellule di materiale vengono continuamente esposte in forme sonore sempre diverse, e allo stesso tempo vengono in continuazione unite e confrontate fra loro, con la conseguente creazione di ambienti sonori in

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l'attuale lapide nel parco della Memoria

costante cambiamento sebbene radicalmente simili. I continui cambiamenti di questo tipo avvengo tramite l’uso di diversi strumenti -dunque la voce, le tastiere, la batteria il basso e il banjo- in combinazioni sempre diverse, oltre all’uso di nastri e della manipolazione audio, grazie alla quale è possibile sovrapporre fonti propriamente musicali con altri tipi di fonti sonore, ad esempio stralci di interviste a partigiani. Il terzo elemento riguarda un più ampio lavoro sulla strutturazione del lavoro musicale in senso generale, cercando di sfruttare l’improvvisazione come mezzo di creazione strutturale estemporanea più che come abbellimento di superficie. Nel caso specifico si cerca di ragionare attraverso la combinazione e stratificazione di note e melodie più che tramite blocchi accordali, creando un fertile punto di incontro metodologico con la stratificazione dialogica che avviene nei testi.

Per la stesura dei testi e per la composizione delle musiche di quali fonti vi siete serviti? Quale è stato il vostro confronto con una vicenda che, giustamente, Gabriele ha definito da umanizzare e che rientra nella stagione della Resistenza e quindi in quella tipologia di racconto storico definibile come epopea resistenziale?

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G: Una delle prime fonti, e non meno importante delle altre, e uno dei più importanti stimoli alla ricerca è stato il dibattito sulla stampa, con quella sua oscillazione fra eroicismo e revisionismo, ma che continua a sollevare un grande interesse; fonti di questo genere si rivelano sterminate. Dal punto di vista storiografico la quantità di ricostruzioni scientifiche è stranamente esigua: Malga Zonta è quindi un fatto di Storia narrato più dai giornali che della storia.

A: Secondo me in questo senso è indicativo il fatto che l’ANPI (di Vicenza e di Trento), abbia avuto interesse nell’appoggiare questo progetto: vi era probabilmente la volontà di far luce su questa storia e di parlarne. Va anche detto, però, che abbiamo percepito un velo di diffidenza iniziale nei confronti nostri e del lavoro: si tratta di un argomento delicato, controverso e che facilmente solleva contestazioni.

Tant’è che, per motivi neanche troppo misteriosi, quest’anno la provincia di Vicenza ha annunciato di non voler partecipare alla celebrazione ufficiale.

G: Per la ricostruzione anche la memorialistica dei partigiani si è dimostrata imprescindibile, anche se mi son servito molto di fonti orali. Fonti orali di svariato genere: anche i racconti dei miei parenti e degli anziani di qui sono stati utili, in quanto, pur non parlando magari di Malga Zonta sono indicativi di come in questa zona sia stata vissuta la Resistenza e di quanto dibattito, anche popolare, suscitino certe vicende.

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Cartolina che esemplifica bene la "santificazione" della Resistenza nel dopoguerra

A: Per quanto riguarda la musica abbiamo realizzato gli arrangiamenti basandoci su canti delle tradizioni popolari e sulla concezioni che vi stanno sotto. Abbiamo cercato di utilizzare un approccio che, pur attingendo al repertorio della tradizione popolare, cerca di non ingabbiarsi in una visione di tipo museale della tradizione stessa come accennavo prima. Oltre agli spunti musicali abbiamo cercato di attingere all’approccio che spinge “da dentro” e trasforma i canti popolari. Per fare un esempio, spesso molte canzoni popolari, in particolar modo quelle concernenti tematiche sociali e politiche, sono state nel tempo continuamente rielaborate a seconda del contesto e delle peculiarità storico- politiche che dominavano i testi stessi: molte melodie popolari nate con una precisa tematica, nel tempo si trasformavano in canzoni dai temi completamente diversi. Dunque una canzone d’amore, poteva diventare un canto inneggiante l’unità d’Italia, mantenendo attinenze, non solo melodiche ma testuali, con la versione più antica del testo. Noi abbiamo cercato di sfruttare questo tipo di meccanismi attingendo al materiale popolare, ma sentendoci liberi, secondo la logica della musica popolare stessa, di variare melodie, testi e arrangiamenti a seconda del contesto specifico. Dunque tornando al nostro esempio di prima, la ballata un tempo d’amore, e in seguito inno risorgimentale è diventata nel nostro arrangiamento una canzone partigiana dove il protagonista non è più né un innamorato né Garibaldi, ma il capo partigiano, nel nostro caso il Marinaio. Questo tipo di approccio è condiviso anche da un artista a noi molto caro quale Daniele Sepe.

Il vostro spettacolo è sostanzialmente un racconto di storia, pur con l’uso di forme diverse rispetto a quelle abitualmente utilizzate dalla storiografia. Pensate che progetti come il vostro possano essere utili per diffondere la conoscenza di alcune vicende e della Storia più in generale?

G: Per ciò che mi riguarda il nostro spettacolo è un modo di raccontare che si lega alla storia propriamente detta, ovvero allo studio della storia: si tratta di una testimonianza sul modo con cui una certa vicenda viene vissuta e si sa che la rappresentazione artistica, più o meno ben fatta, racconta essa stessa un modo di comprendere la storia. Fare uno spettacolo del genere ha da un lato sicuramente una valenza artistica, ma dall’altro, mi sembra, ha anche la possibilità di portare alla luce il valore della coscienza della propria opinione storica. Secondo me il nostro racconto della storia non deve essere, in quanto artistico, filologicamente esatto, quanto invece deve mostrare la sua valenza nella contemporaneità, per dare la possibilità a chi ne fruisce di far valere la propria partecipazione alla storia del proprio luogo.

A: Condivido quanto ha detto Gabriele. Secondo me il narrare la storia con un mezzo che è apertamente finzionale, e che quindi non nasconde i narratori attraverso l’adozione di metodologie oggettive, consente in qualche modo di adottare un approccio e un contatto con la storia che fa riflettere su alcuni elementi che si rimettono alla problematica della trasmissione dei dati storici. Il metodo da noi adottato, e sul quale continueremo a lavorare come collettivo Abele di Babele, di sovrapposizione testuale, e quindi di ricerca sulla polivocalità ci consente di usare questo stile per sovrapporre varie ipotesi storiche, nello specifico le diverse ipotesi che sono state fatte sulla ricostruzione dell’ipotetico urlo che il Marinaio, il capo dei partigiani, avrebbe lanciato prima di essere fucilato: dunque in questo caso il sovrapporre più linee vocali è elemento stilistico e allo steso tempo un modo alternativo per porre un problema di natura storiografica.


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