Quei miei 35 giorni a Torino

Da Brunougolini

foto:flickr

Sono i primi giorni di settembre del 1980. Io, cronista sindacale all’Unità di Milano sono spedito a Torino dal direttore Alfredo Rechlin. Vi rimango per 35 giorni e 35 notti. Lavoro nella vicina redazione, accanto a Michele Costa e Pierino Mollo, spesso con Massimo Cavallini. Numerosi colleghi di altri giornali (sono arrivati da tutta Italia) sono ospiti degli uffici di Corso Marconi, quartier generale della Fiat. Scrivo 35 resoconti, spesso in prima pagina. E’ una battaglia storica, dapprima per sconfiggere la pretesa di licenziare circa quindicimila operai. Poi per fare in modo che quella massa di lavoratori sia coinvolta in una forma di cassa integrazione a rotazione. La forma di lotta adottata è quella dello sciopero ad oltranza. I picchetti giorno e notte sorvegliano la sequela dei cancelli di Mirafiori e delle altre fabbriche del gruppo. Gli operai spesso sono accompagnati da mogli e figli. Verso la fine dei 35 giorni arriveranno a dar man forte anche operai di Brescia e di altre città. Capita di vedere all’alba gruppi di cosiddetti “crumiri” intenti a fronteggiare i picchettatori. Ma non passano. Non c’è ancora il ministro Sacconi a decretare che il picchetto è contro la legge.
Tutto finisce con quella che è stata chiamata la marcia dei 40 mila. Oggi non c’è alcun dubbio sul fatto che non è una rivolta spontanea dei “colletti bianchi” contro le imperanti “tute blu”. L’ha voluta la Fiat di Cesare Romiti facendo leva su un malessere reale. Qualche giorno prima Bruno Trentin ammonisce sul fatto che sarebbe meglio cambiare forme di lotta. Nessuno gli da retta.
Anzi c’è chi propone di occupare la Fiat. L’ipotesi corre nei picchetti. C’è chi soffia sul fuoco. Tra i pompieri non posso non ricordare il segretario del Pci Renzo Gianotti, Piero Fassino, Giuliano Ferrara (allora spedito nel capoluogo piemontese a farsi le ossa). E scoppia il caso Berlinguer. La sera prima del discorso sono nella camera d’albergo di Giorgio Frasca Polara (illustre cronista parlamentare di questo giornale). Il segretario del Pci sta nella stanza accanto e fa portare, via via, i fogli con i suoi appunti per il discorso del giorno dopo. Giorgio li traduce sulla macchina da scrivere. Io gli do una mano. Ho ancora negli occhi il sorriso un po’ stanco di Berlinguer affacciato alla porta, alla fine, per salutarci. Non c’è in quel testo alcun accenno all’occupazione della Fiat. Il tema è posto, durante il comizio davanti ai cancelli, non da un impetuoso comunista ma da un delegato della Fim-Cisl Liberato Norcia. Che cosa farete se occupiamo la fabbrica? E Berlinguer osa rispondere che se la scelta fosse stata decisa dai sindacati il Pci l’avrebbe sostenuta. Poteva dire “ci opporremo a tutti i costi?”. La situazione pochi giorni dopo precipita. I picchetti cominciano ad assottigliarsi e per questo arrivano i rinforzi da altre città. La Fiat passa dai licenziamenti alla cassa integrazione, ma non basta. E arriva la famosa marcia dei 40 mila. Vado a vedere, nello splendido archivio dell’Unità on line, il quotidiano del 15 ottobre 1980. Il mio pezzo comincia con queste parole: “E’ uno strano esercito silenzioso che percorre i lunghi viali, arriva al cuore della città. Quanti sono? La sfilata si protrae per oltre trenta minuti. La Tv dirà ventimila, la radio quarantamila… Chi sono? Una massa sterminata di venduti e provocatori, come dice qualche delegato della FLM ? Le etichette facili non convincono. E' una manifestazione massiccia di forze moderate… Sono anche loro, si anche loro, i protagonisti di una vicenda dura, estenuante, che si protrae da oltre un mese”.
E’ il segnale di una sconfitta. I sindacati a Roma si affrettano a stipulare un accordo che non prevede la richiesta della cassa integrazione a rotazione. Pierre Carniti, allora a capo della Cisl, chiede di ritardare i tempi e che se si vuole si può portare a Torino non 40, bensì centomila lavoratori. Ma anche lui firma per non contrastare Lama che secondo la stessa testimonianza di Carniti è premuto dal Pci per una rapida conclusione purchessia.
E’ l’avvio di una fase nuova per un movimento sindacale che non riesce a fare appieno i conti con i propri errori e con le proprie necessità di rinnovamento. Sono trascorsi trent’anni. Incontro, tempo fa, un gruppo di delegati dell’epoca come Giulio Gino, Cesare Cosi, Felice Celestini. Ascolto i loro racconti. Il vero scontro degli anni 70, spiegano, è stato questo: noi abbiamo messo il becco nelle cose del padrone. Era un sindacato che contrattava dove produrre, quanto produrre, come produrre. Andava sconfitto. E alla fine hanno perso tutti, anche la Fiat. Hanno ragione? Certo quella messa al bando di quindicimila operai non ha ridato le ali al colosso dell’auto. Oggi, con l’osannato Marchionne, siamo alle prese con gli stessi problemi di un’industria che annaspa.


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