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Quel caschetto nero …

Da Cultura Salentina

di Luca Portaluri

Quel caschetto nero …

Andre Kohn (olio su tela)

Aveva da subito notato quel caschetto nero, la prima volta che l’aveva vista. Alice viaggiava quasi ogni giorno su quel treno proveniente da Lecce e diretto a Gagliano del Capo, estremo sud di tutto, pure dell’anima. Non sapeva quale fosse la stazione di partenza dell’altra donna, certo è che Alice aspettava a maglie il locale AT 623 delle 18,37 e, dopo aver preso posto, la scorgeva quasi sempre. Elegante, raffinata, fintamente borghese, l’aveva etichettata. Ma umana, profondamente umana, se non altro per le innumerevoli volte in cui controllava eventuali sgualciture presenti sui suoi tailleur blu notte. Nessuna riga, nessuna incrinatura fuori di lei. Chissà quante dentro, però’. Alice aveva anche notato spesso il mascara tenebroso e il fard deciso e un onnipresente ombretto verde, a far risaltare ancor di più quegli occhi color mare in bonaccia la cui profondità non poteva venir offuscata dalle spesse montature d’osso e dai colori sgargianti degli occhiali che tanto femminilmente la donna indossava. Classe consapevole e malcelata sobrietà in un’unica mise. Alice viaggiava in treno perché l’unica automobile di famiglia era monopolizzata dal fratello maggiore, autoritario, dispettosamente sprezzante delle esigenze della sorella: chissà, forse proprio per questo da quando aveva superato la fase puberale della vita e fino ad allora che aveva raggiunto il quarto di secolo d’età, lei aveva sempre cercato di evitare uomini o ragazzi che anche lontanamente potessero somigliare al primogenito di famiglia. Una lista lunghissima, pensava mortificandosi, anche perché i più timidi e rispettosi non si facevano notare, in ogni caso era sicura di non essersi mai innamorata nella sua giovane esistenza. Quel giorno in cui s’era decisa a parlarle, Alice non aveva dimenticato di notare il piccolo seno della donna rigonfio in maniera innaturale che fuoriusciva dalla scollatura involontaria. Aveva sorriso tra sé e sé, pensando alle magie dei push-up, e al fatto che lei avendo la quarta misura abbondante di reggiseno, non aveva mai avuto bisogno né di maghi né di silicone. Non aveva riso per niente invece quando aveva visto il paio di scarpe indossate divinamente dalla tipa, e il vertiginoso tacco a spillo, né volgare né banale, quasi una naturale protesi di quel corpo cosi slanciato: Alice poteva solo sognare scarpe cosi rialzate, il suo peso e la sua schiena continuavano a sbandierare un netto rifiuto, da quando era bambina.

Quel pomeriggio in cui le si era seduta vicina , poi, non aveva potuto fare a meno di leggere il titolo del libro che da giorni la splendida ragazza portava gelosamente con sé, stretto tra il suo mento e la sua ventiquattrore in pelle marrone appoggiata sul grembo. “Che strano! Il club degli incorreggibili ottimisti”, aveva esordito, per attaccar bottone.” Come scusi? ” aveva risposto l’altra alzando gli occhi dalle pagine del libro. “No, scusami tu, dicevo che strano il titolo, cioè secondo te nessun ottimista si può correggere nella vita?” aveva ribadito Alice spezzando subito la formalità della conversazione: ci si dà del tu tra quasi coetanee, aveva sempre creduto. Martina viaggiava in treno ogni volta che poteva, ogni volta che il suo lavoro di avvocato glielo permetteva, un passaggio dal tribunale di Lecce alla stazione e poi sul primo locale che trovava. Cercava sempre i posti a sedere che le permettessero di viaggiare in direzione non contraria a quella del mezzo di locomozione, era questa la sua unica preoccupazione. Quando capitava poi di trovar posto vicino al finestrino, era doppiamente felice: lo scorrere dei paesaggi, il ritmo sincopato dello sferragliare del treno sui binari, quando addirittura non la addormentavano,la facevano tuttavia estremamente rilassare.

Lei, che era cosi ansiosa e sensibile, nonostante la tenacia dialettica e il tono di voce calmo nel discutere davanti al giudice di turno le sue cause penali facessero pensare il contrario. O almeno così dovevano pensare tutti gli uomini i cui inviti galanti lei sistematicamente rifiutava, e i cui sguardi ammicca tori violentemente evitava. Su quel treno locale era diverso, però: s’era accorta di quel viso paffutello ma dolcissimo che la fissava in modo intenso e penetrante. Quel viso che sempre più spesso incrociava nello scompartimento: orari, coincidenze, casualità, non lo sapeva. In ogni caso, ne era quasi certa: ogni volta che alzava lo sguardo dal romanzo (che aveva deciso di leggere perché incuriosita dal fatto che l’autore, tal Jean Michel Guenassia, aveva abbandonato la professione d’avvocato per dedicarsi totalmente alla scrittura di quel libro), intravedeva attraverso il riflesso nell’opaco vetro la ragazza dai capelli folti e scompigliati rivolta verso di lei. Quegli occhi grandi e sornioni riversi sui suoi. Martina aveva scoperto di non provare imbarazzo, ma mano a mano che nei crepuscoli friabili che addolcivano la sua stanchezza aumentavano quegli incroci di sguardi, aveva con una certa sorpresa capito di provare un flebile senso di piacere. Nell’essere osservata, e nel ricambiare l’occhiata fugace. Martina aveva anche imparato a distinguere le tante bluse multicolore, senza cinta alcuna, quasi sciatte nella loro semplicità, ma efficaci nel nascondere schivamente quel seno prorompente, che indossava tanto spesso la ragazza. In un pomeriggio tardo ma assolato, con la testa china sul romanzo,aveva sentito avvicinarsi la compagna di viaggio, e aveva di sottecchi osservato mentre prendeva posto di fronte a lei. Aveva avvertito inaspettatamente piccole esplosioni d’ansia, e infinitesimali accelerazioni del respiro, aveva seguito la sua mano stringere a sé la borsa di pelle piena di documenti e riviste. Poi un leggero prurito vicino alla base del naso. Qualche secondo dopo, aveva sentito rivolgersi quella frase. Si, la frase era rivolta chiaramente a lei: “che strano! Il club degli incorreggibili ottimisti”. Alice non aveva mai saputo negare la possibilità dell’esistenza di un colpo di fulmine, ma non avrebbe mai pensato che quando fosse arrivato, poi, successivamente sarebbe esploso cosi spesso, e ripetutamente, tutte le volte che salendo alla stazione di maglie su di un treno locale delle 18,37 proveniente da Lecce e diretto a Gagliano del Capo avrebbe notato quella donna cosi apparentemente diversa da lei, esuberante e truccatissima, gagliarda, ma mai altezzosa. Alice si era innamorata, e non ci sarebbe stato nessun ragazzo, nessun uomo capace di farle cambiare idea nei mesi a venire. Martina si considerava un’aliena nel mondo del fatalismo romantico: per lei destino e amore erano due parole antitetiche, come vita e morte. Neanche il sogno di una speranza. Nessuna fiducia in un cecchino fallibilissimo come cupido, che potesse porre fine alle sue ansie, ai suoi timori, alle sue censure razionali. Riteneva assurdo che lei e quella ragazza paffutella e dolcissima fossero destinate ad incontrarsi. Altri treni, altri posti, altre conoscenze, altri sonni, altre pagine. I soliti pessimismi, le solite insicurezze. Martina preferiva pensare invece ad un passo poetico dell’Inferno dantesco, lussurioso ma fantastico: ‘galeotto fu il libro e chi lo scrisse: quel giorno più non vi leggemmo avante’. Pensava ai personaggi del libro, bellissimi, commoventi, alle loro storie di guerra d’amore che si intrecciavano con la Storia, quella delle cose più grandi di loro. Martina pensava alle bluse e alla mancanza di pettini. Ai suoi specchi e alle sue remore, e a come fossero stati disintegrati dalle parole e dalle labbra carnose di quella ragazza conosciuta in un trasandato, antico scompartimento di un altrettanto malconcio e vetusto treno locale salentino. Martina si era innamorata, e avrebbe continuato ad eludere le avances di tutti gli uomini possibili e immaginabili nei mesi a venire. Alice e Martina ora parlano dei loro sogni comuni. Martina e Alice pensano ai loro baci appassionati che nessun controllore di biglietti potrà mai obliterare.


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