In questa giornata in cui la salma del giudice Giovanni Falcone, a distanza di 23 anni dalla strage di Capaci, raggiunge il Pantheon dei siciliani illustri nel quale sono sepolti tra gli altri, Francesco Crispi, Emerico Amari e Ruggero Settimo, non credo sia superfluo ricordare ai castellammaresi, che in quello stesso luogo, la Chiesa di San Domenico a Palermo è sepolto, tra gli altri uomini illustri, il castellammarese d’adozione (avendo sposato in seconde nozze una castellammarese ed a Castellammare del Golfo avendo vissuto parte della sua vita fino alla morte) Pasquale Calvi.
Sulla sua lapide in San Domenico si legge:
A Pasquale Calvi
cittadino scrittore magistrato
per antiche virtù ricordevole
che precorrendo lo spirito nuovo
nel parlamento siciliano del MDCCCXLVIII
assorse tribuno di libertà
eloquentissimo
la Sicilia riconoscente
nacque in Messina a 13 febbraio 1794
patì prigionia dal 1820 al 1827
esilio dal 1848 al 1860
morì in Castellammare-Golfo 20 settembre 1867.
Paquale Calvi è in se una ottima sintesi di quella parte di uomini che fecero l’Italia con passione ed a rischio sempre della libertà e della propria stessa vita. Chi cerca “purezze” di matrice religiosa o piccolo borghese ed assenza di contraddizioni non ne troverà certo nella vita di Pasquale Calvi, come d’altra parte ritengo sia difficile trovarne in ogni combattente per la libertà di ogni tempo che non sia morto precocemente.
Pasquale Calvi nacque a Messina il 13 febbraio 1794 da Antonio, ufficiale commissario di guerra e marina.Giovanissimo si avvicinò alla politica e già a diciotto anni avendo partecipato al movimento costituzionale siciliano del 1812 finì sotto l’occhio della polizia tanto da doversi rifugiare a Reggio Calabria per proseguire gli studi e per per allontanarsi dal controllo del padre, col quale si scontra a causa delle sue idee liberali antiborboniche.
Qui conosce Anna Cacopardo, la sposa e ne avrà quattro figli.
Nel 1820 lo ritroviamo ad Alcamo vicesegretario dell’Intendenza. Allo scoccare degli anni ’20, la città di Alcamo è fra le prime ad insorgere. Nonostante il suo ruolo istituzionale, il Calvi sceglie di schierarsi dalla parte dei rivoltosi e prende parte all’insurrezione.
Ristabilito l’ordine da parte dei borbonici, viene arrestato ed accusato di omicidio, scarcerazione arbitraria, corruzione e minacce all’indirizzo del giudice del Circondario.
L’accusa era quella dell’uccisione durante i moti di tale Carlo Patti, il quale prima di morire avrebbe fatto in tempo ad accusare i suoi attentatori. Il Calvi poi sarebbe stato tra i partecipanti, nel febbraio del 1821 con altri ad una azione intimidatoria contro il giudice del circondario, per costringerlo a modificare i documenti raccolti per incriminare gli autori dell’omicidio di Carlo Patti. In quella circostanza il Calvi dichiarò al giudice che la morte del Patti era stata decretata dalla carboneria ed impose la liberazione dei supposti rei e la distruzione delle eventuali prove contro di essi.
Nel luglio successivo, repressi i moti, il Calvi fu arrestato.
Dopo tre anni il processo e infine l’assoluzione per insufficienza di prove.
Impossibilitato però a rientrare nell’amministrazione pubblica, il Calvi si stabilì a Palermo, qui riprese gli studi, e nel 1830 conseguì la laurea in legge. Affermatosi rapidamente fra i migliori avvocati della città, ebbe il patrocinio di varie cause di rilievo.
L’epidemia di colera del 1837 gli porta via la moglie, che muore dopo una breve agonia lasciandolo solo con quattro figli.
Dopo qualche anno, il Calvi si risposa con Rosaria Pilara, una giovane possidente di Castellammare del Golfo, che nel 1854 darà alla luce la piccola Emma.
Per il resto meglio seguire la relativa voce della Treccani
“In tutti questi anni di permanenza a Palermo la polizia, ben conoscendo i precedenti politici del C., non aveva tralasciato di sorvegliarlo, giungendo fino ad assoldare una spia tra gli impiegati del suo studio. Nulla emerse mai contro di lui. Eppure, quando il 12 genn. 1848 la rivolta scoppiò a Palermo, il C. apparve bene inserito nel movimento liberale. Tra i primi a scendere in piazza, fu componente del Comitato generale e il 14 assunse la direzione del Comitato di giustizia e sicurezza pubblica. Nominato presidente della commissione incaricata di studiare la costituzione da dare alla Sicilia, il 25 febbraio firmava l’atto di convocazione del Parlamento generale. Schieratosi tra i repubblicani democratici, non si irrigidì nella pregiudiziale istituzionale per non impedire che aiuti venissero dall’estero al suo paese. Per aderire alla volontà della maggioranza, il 13 aprile firmò l’atto di decadenza del Borbone, dichiarandosi però apertamente contrario sia perché la Sicilia non aveva un esercito capace di contrastare la prevedibile reazione del Borbone, sia perché di fronte ai rivolgimenti in corso nella penisola sarebbe stato, secondo lui, più prudente attendere l’evolversi degli eventi per evitare che, se fosse stato chiamato al trono di Sicilia un altro principe, l’isola restasse esclusa da un eventuale Stato repubblicano italiano proclamato da una Costituente.
Il 27 marzo del 1848 il C. entrò nel governo come ministro degli Interni. Si trovò subito a subire una forte opposizione parlamentare, che gli rimproverava impreveggenza e debolezza nell’affrontare i problemi dell’ordine pubblico. Unico repubblicano in seno al governo, vi dovette contrastare l’invadenza dello Stabile, che cercava di legare le sorti dell’isola alla politica inglese. L’urto tra i due uomini politici, già rivelatosi nel corso delle discussioni che avevano portato alla firma dell’atto, di decadenza del Borbone, si concluse con la estromissione del C. dal governo a seguito di una lunga e abile manovra. La lotta con lo Stabile continuò nel Parlamento, dove il C. si trovò a capo della sparuta pattuglia dei repubblicani. Il suo ideale sarebbe stato di giungere alla formazione di uno Stato unitario repubblicano italiano attraverso l’opera di un’Assemblea nazionale costituente, ma di fronte alla difficoltà di attuare in quel momento un piano del genere si batté perché governo e Parlamento di Sicilia non impegnassero in modo irreversibile il futuro dell’isola. Da qui l’asprezza dei toni che assunse la sua opposizione in Parlamento e fuori, e che proprio nell’attrito con lo Stabile ebbe la manifestazione più vistosa. Nel febbraio 1849 la critica serrata e agguerrita del C. determinava la caduta del ministero Torrearsa. Quando Ruggero Settimo gli diede l’incarico di formare il nuovo governo, il C. pose come condizione che vi partecipasse anche lo Stabile, per assicurarne la saldezza, ma l’accordo non fu possibile. Circa un mese dopo, il 13 marzo 1849, il ritorno offensivo dei borbonici impose la necessità di costituire un governo di coalizione, per dare impulso maggiore alla difesa della Sicilia, e il C. vi assunse il dicastero della Giustizia. Ma era tardi: gli apprestamenti militari inesistenti, l’esercito male equipaggiato, privo di adeguato addestramento e di validi comandanti rendevano problematica l’organizzazione d’una valida resistenza. Il C. si fece sostenitore in seno al Consiglio dei ministri della necessità di armare e sollevare il popolo, d’inviare in tutti i comuni dell’isola commissari perché istigassero i cittadini alla guerra e organizzassero la rivolta di popolo, ma il progetto non poté attuarsi anche per le resistenze che esso incontrò da parte degli altri ministri, che non vi vedevano alcuna possibilità di successo. Le dimissioni del governo di coalizione segnavano la fine del periodo rivoluzionario in Sicilia; il 15 maggio il Filangieri, comandante in capo delle truppe borboniche, entrava in Palermo. Il giorno dopo il C., escluso dall’amnistia, si imbarcò sul piroscafo “Indipendente” per Malta dove sbarcò il 18.
A Malta il C. si organizzò subito in modo da mantenere una attiva corrispondenza con gli ambienti liberali delle principali città di Sicilia. Nello stesso tempo, in polemica con la maggior parte dell’emigrazione siciliana, iniziava la stesura di una storia degli avvenimenti siciliani del 1848. L’opera, in 3 volumi, venne alla luce a Malta col titolo Memorie storiche e critiche della rivoluzione siciliana del 1848, anonima e con la falsa indicazione: Londra 1851, tra la fine del 1851 ed il novembre del 1853. Essa suscitò reazioni in tutti i centri in cui s’erano riuniti esuli siciliani e, per l’acredine dei giudizi indiscriminati, diede vita a polemiche impietose, che si trascinarono a lungo ed ebbero anche strascichi giudiziari, su cui, oltre all’Appendice alle Memorie…, del C. stesso (pubblicata anch’essa anonima a Malta nel 1856, col falso luogo di Londra), si vedano le pp. 18-28 della Guarnotta.
Mentre era in corso la pubblicazione delle Memorie il C. mise su un comitato democratico con l’intento di organizzare delle spedizioni in Sicilia per suscitarvi la rivolta. L’iniziativa determinò una crisi in seno all’emigrazione di tendenza democratica di stanza a Malta e portò alla formazione di un altro comitato, che faceva capo al Fabrizi e si rivelò ben presto più numeroso e meglio organizzato.
Nonostante l’ostilità con il Fabrizi il C. non disarmò e alla fine del 1853 fece partire una spedizione per la Sicilia occidentale. Ne affidò il comando a Luigi Pellegrino, che con due compagni sarebbe dovuto sbarcare nei pressi di Trapani; invece di attenersi al piano, i tre uomini sbarcarono a Tunisi e lì spesero il denaro ricevuto.
Per nulla scoraggiato, si diede subito ad organizzare un’altra spedizione. Questa volta gli emissari avrebbero dovuto entrare in contatto con i capi dei comitati d’azione di Palermo, Messina, Catania e Trapani, concertare con loro un piano insurrezionale, accertare la consistenza delle forze borboniche dislocate nell’isola, assodare la consistenza dei mezzi e delle armi a disposizione dei patrioti, prendere nota delle località in cui la popolazione si rivelava più disposta ad appoggiare un’insurrezione. Raccolte tutte queste notizie, gli emissari avrebbero dovuto far ritorno a Malta per riferire, a meno che la situazione isolana non consentisse di dare subito inizio all’insurrezione ed allora il Comitato maltese avrebbe inviato aiuti. Il 24 maggio 1854 l’ex colonnello Giovanni Interdonato, di Roccalumera, e Giuseppe Scarperia, di Castelvetrano, sbarcarono sulla spiaggia di Roccalumera. Il 28 però il loro rifugio fu attaccato dalla gendarmeria ed a stento riuscirono a sfuggire alla cattura, dopo un vivace scambio di fucilate. Dopo pochi giorni, i due si consegnavano volontariamente alla polizia, per evitare che continuassero le rappresaglie contro le loro famiglie.
Gli insuccessi non fiaccarono il C., che continuò a darsi da fare per tenere desti gli spiriti battaglieri tra gli esuli aderenti al suo comitato, come attestano anche i rapporti di un agente borbonico operante a Malta. Quando, però, nel luglio del 1856 il Fabrizi fu nominato presidente del Comitato dell’emigrazione siciliana, egli si ritirò in campagna e smise ogni attività. Da questo momento le notizie sul C. fino al 1860 sono scarse.
Dopo lo sbarco di Garibaldi il C., ch’era rimasto sempre in contatto con i comitati di Sicilia, apprestò armi ed il 3 giugno lasciò Malta. Il 4 giugno giungeva a Pozzallo con “quattro pezzi di cannone, due botticini di palle di moschetto ed una cassetta di tubetti fulminanti”, e il 7 presiedeva un’imponente adunata popolare a Scicli. Il 29 giugno il dittatore lo nominò presidente della Corte suprema di giustizia e in questa veste ebbe il compito, il 4 novembre, di proclamare i risultati del plebiscito. Nel 1861 fu eletto deputato per il collegio di Partinico. Nominato presidente di Corte di cassazione, fu successivamente a Palermo, a Firenze e Torino.
Anche dopo la proclamazione del Regno il C. rimase fedele ai suoi principi democratici e non lesinò aspre critiche al governo. Appartenne alla massoneria, nella quale raggiunse alti gradi e col cui sostegno economico pubblicò, nel 1865, un Catechismo politico-economico-popolare (s.l. né d.).
Nell’opera, comparsa anch’essa anonima, affiorano prepotenti accenti repubblicani ed anticipazioni d’intonazione socialista. Il C. vi afferma che “le basi della repubblica sociale sarebbero due: la socializzazione del suolo, la socializzazione dei mezzi tutti di lavoro”, sostiene l’introduzione di un nuovo sistema di tassazione progressiva, propone un’assicurazione obbligatoria per tutti i cittadini contro i rischi delle attività lavorative. Inoltre propugna l’emancipazione della donna, una nuova sistemazione giuridica dei rapporti tra i coniugi e il riconoscimento di piena parità tra marito e moglie: tutti problemi che precorrono, a volte di molto, la tematica della pubblicistica politica di tendenza radicale e socialista.
Morì a Castellammare del Golfo il 20 sett. 1867, vittima del colera; la sua salma fu poi traslata a Palermo nella chiesa di S. Domenico, il Pantheon dei siciliani illustri.“.
Su Pasquale Calvi e su Pasquale Calvi ed il suo tempo molto è stato scritto ed ancora di recente (2013), a dimostrazione di come ancora nel terzo millennio la vita di Pasquale Calvi sia in grado di attrarre gli studiosi, la ricercatrice dell’Università di Catania Alessia Facineroso, ha pubblicato da Bonanno nella collana Storia e politica, “Il cavaliere errante. Pasquale Calvi tra rivoluzione ed esilio“.Liberamente scaricabile a quessto link è il suo testo “Memorie storiche e critiche della rivoluzione siciliana del 1848“.