Fa sempre piacere vedere un sito web importante come “lavoce.info” divulgare i dati su cui da anni gli economisti critici verso l’euro basano le proprie analisi.
Nell’articolo “L’Europa disunita di salari e produttività” di Cristina Tealdi e Davide Ticchi vengono mostrati gli andamenti dell’inflazione, della produttività, dei salari e del costo del lavoro per unità di prodotto, i cui differenziali hanno non poco contribuito all’indebitamento con l’estero dei paesi mediterranei (e della Francia).
I nostri lettori li conoscono bene, quindi rimandiamo all’articolo in questione. Il problema sono però le conclusioni degli autori:
In Italia i salari nominali sono cresciuti parallelamente all’inflazione, lasciando i salari reali invariati, nonostante una produttività del lavoro costante o in lieve declino. In Francia, l’aumento della produttività del lavoro è stato trasferito ai lavoratori, che percepiscono non solo salari nominali, ma anche reali, significativamente più alti. In Germania, l’aumento della produttività del lavoro è stato trattenuto dalle imprese, che hanno quindi guadagnato competitività sul mercato. In sintesi, la divergenza nel costo del lavoro tra i tre Paesi [Germania, Francia, Italia, ndr] va imputata principalmente al fatto che in Italia la produttività non è cresciuta, contrariamente a quanto avvenuto in Francia e Germania. E mentre in Francia la crescita della produttività ha consentito un incremento dei salari reali, in Germania è stata superiore all’aumento dei salari.
Questi risultati suggeriscono, quindi, che le politiche del mercato del lavoro dovrebbero tenere conto delle differenze interne in merito alle dinamiche salariali e della produttività. Se paesi come la Francia, per esempio, potrebbero ottenere facilmente guadagni di competitività mediante un certo grado di moderazione salariale, il nostro paese sembra avere come unica soluzione la crescita della produttività. L’alternativa sarebbe la riduzione dei salari reali, un’opzione con costi sociali elevati, che non solo non garantirebbe la crescita e lo sviluppo economico del paese, ma potrebbe avere effetti depressivi sulla domanda aggregata.
E’ perfettamente vero che in Italia, un paese che ha già una domanda stagnante, “la riduzione dei salari reali non solo non garantirebbe la crescita e lo sviluppo economico del paese, ma potrebbe avere effetti depressivi sulla domanda aggregata”. E’ già un passo in avanti significativo rispetto alla linea tenuta dal governo Monti e alla propaganda tedesca.
Si potrebbe però fare qualche passo in più. Perché, ci chiediamo, Tealdi e Ticchi non si domandano come mai in Francia gli aumenti di produttività si sono accompagnati ad incrementi salariali in termini reali e in Germania no? E, ancora, perché dovrebbe essere la Francia a moderare i salari e non invece, come sarebbe logico secondo la “regola aurea dei salari“, la Germania a farli crescere con la produttività (anzi un po’ di più, data la deflazione di questi anni)?
Per quanto riguarda l’Italia, è vero che dobbiamo aumentare la nostra produttività, ma chiediamoci anche se la sua stagnazione non dipenda, per lo meno in parte, dalla scarsa domanda interna (depressa da salari reali stagnanti e tasse altissime, al fine di accumulare avanzi primari per ridurre il debito pubblico) e dalla scarsa domanda estera dalla Germania, nostro principale partner commerciale. Nessun paese europeo, infatti, ha avuto in questi anni tale pessima combinazione della domanda aggregata.
Quando la domanda è ferma, come insegna Keynes, l’offerta si adegua. E pertanto se non c’è domanda neanche la produttività cresce, aggiungevano Kaldor e Verdoorn.
Ciò non assolve il Paese da colpe specifiche, sulle quali torneremo, riguardanti il lato dell’offerta e il ruolo dello Stato. Tuttavia fornisce una spiegazione un po’ meno semplicistica ed ingenua di quella tutta supply-side preponderante nel dibattito pubblico ed anche, purtroppo, tra gli studiosi.
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