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Quel che non amo del Pop (di ora)

Creato il 13 dicembre 2010 da Marcolenzi

Quel che non amo del Pop (di ora)

Come ormai sanno i lettori più affezionati di questo blog, amo – e da sempre – la musica pop. Non solo perché è la musica con la quale sono cresciuto (con la quale anzi siamo cresciuti), ma perché la considero qualcosa di più che un semplice aspetto del costume e della società odierna: perché la considero una musica nuova (e in questo senso non in opposizione ma in continuità con la musica di ricerca e di avanguardia del Novecento) e soprattutto una musica che ha segnato una svolta epocale e decisiva nella storia dell’arte dei suoni, con un impatto non inferiore a quello che di volta in volta ebbero la nascita della polifonia, la musica di Monteverdi, Beethoven e la prima generazione romantica, Debussy, Schönberg, Cage, il Jazz e la musica elettronica. Né ho mancato di criticare, in varie occasioni, l’atteggiamento di sufficienza, a mio avviso pregiudizievole, codino e reazionario, che hanno manifestato nei suoi confronti molti rappresentanti della musica colta (compositori, interpreti, musicologi e critici musicali).

Ovviamente questo mio giudizio più che positivo sul Pop non va generalizzato ed esteso a ogni suo aspetto, anzi. Amo e ammiro, innanzitutto, le attitudini più generiche dei musicisti pop, il loro modo di avvicinare il mondo dei suoni e di pensare la musica: quell’approccio diretto, anarchico, ingenuo e sperimentale che ha mantenuto viva e fresca (e spesso felice) la loro vena creativa. Ma se dovessi esprimere dei giudizi sulla qualità ‘intrinseca’ del materiale e discutere di nomi singoli più che di generi, stili, tecniche o tendenze, sarei tentato di salvare una piccola percentuale di gruppi, compositori, produttori e parolieri (piccola percentuale che, sia detto per inciso, rappresenterebbe comunque un numero cospicuo in termini assoluti, tanto è vasto, articolato e differenziato l’universo del Pop).  Gli aspetti che considero più deleteri di questa musica non sono tanto la lamentata uniformità del beat (il Pop è, più di qualsiasi altro genere musicale, l’impero universale del quattro quarti) né il suo ancoraggio pressoché esclusivo alla forma-canzone, quanto piuttosto alcuni aspetti tecnici – che inevitabilmente, nei grandi numeri, si fanno anche estetici – legati alla omologazione dei processi di registrazione e alla ‘confezione’ del prodotto finale. Il cosiddetto ‘clic in cuffia’ e il recente fenomeno, sempre più diffuso, della compressione sonora, sono due esempi particolarmente calzanti al riguardo. Le trovo forme insopportabili di tirannia sull’orecchio musicale e sul senso estetico in generale. E se il primo (il clic) è un espediente tecnico praticamente inevitabile quando non si registra “in presa diretta”, la seconda è il frutto di una precisa e deliberata scelta estetica, tanto furba e mirata quanto povera e infelicissima, dettata certo più da esigenze di marketing che da ragioni di gusto. L’esito – devastante – che esse hanno prodotto è stato nientemeno che la distruzione dell’agogica, cioè di una delle componenti fondamentali del fenomeno musicale. Anche se, come in tutti i processi lenti in cui veniamo coinvolti, abbiamo finito per non accorgercene, dalla musica (pop) sono infatti spariti il crescendo e il diminuendo così come il rallentando e l’accelerando. Non vi sono più sfumature, insomma: né piani dinamici né fluttuazioni temporali, ma un unico blocco, un’unica melassa rappresa, spessa, coesa e compressa come un panforte sonoro. Ecco: questo è ciò che trovo davvero insopportabile e incredibilmente limitante in questa musica. Il fatto che non vi siano più sfumature espressive, che l’espressività sia affidata unicamente ai testi (e che testi…) o ai più triti clichés stilistici (un certo modo di cantare, un certo suono chitarristico, un certo tipo di cassa, etc.). Ciò che, fino agli anni Ottanta, era ancora un mondo ricco e vario – sto parlando, voglio ricordare, del Pop in generale – è diventato, negli ultimi vent’anni e a dispetto dell’apparente fioritura di innumerevoli nuove tendenze, il regno dell’omologazione linguistica ed espressiva, riflesso perfetto, peraltro, della deriva politica e culturale che stiamo vivendo.



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