Weltschmerz per la morte, Weltfreude per la vita – soprattutto versi in attesa di un altro sogno. Maura Del Serra, Tentativi di certezza. Poesie 1999-2009, Venezia, Marsilio, 2010
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di Giuseppe Panella*
Ricordo come fosse stato vissuto in un momento di ammirazione (e anche di un po’ di stupore) la figura slanciata e fiera di Maura Del Serra che declamava a Fiesole, nel 2005, durante un convegno dedicato a Pasolini dal Centro di Ascolto e di Formazione Psicoanalitica di Pistoia, un suo lungo poema drammatico sul poeta ucciso di Casarsa (lo si può leggere come Trasumanar. L’atto di Pasolini nel bel volume, L’eredità di Pier Paolo Pasolini, a cura di Alessandro Guidi e Pierluigi Sassetti, Milano, Mimesis, 2009).
Nonostante le sue evidenti difficoltà di vista e le difficoltà che questo comportava, la sua voce risuonava ferma e diritta, attenta alle sfumature e presa dal confronto indiretto ma reale che l’autrice stava tentando, quasi medianicamente, a costruire con il poeta che non c’era più.
Anche questo libro che raccoglie i testi poetici di dieci anni è scritto con lingua sicura e volontà d’acciaio (nonostante le oscillazioni e i ripiegamenti che il testo evidenzia).
«Weltschmerz, Weltfreude. Il pianto delle cose e il riso dell’universo, / il sonno del rimpatriato e l’insonnia del disperso, / la mano che massacra e quella che benedice, / l’infero Minotauro e l’alta Iride felice, / la bambina che insegna al suo gatto a danzare / e la vecchia che torna pietra del focolare: / il fulmine più fragile ci inghiotte, / ma la luce separa la notte dalla notte» (p. 171).
In questi Tentativi di certezza si oscilla, allora, tra gioia e dolore, tra descrizione di momenti di difficoltà e di resurrezione di speranza, di sogni mai realizzati e di visioni del mondo stupendamente campite su uno sfondo di quasi stupita felicità. Le lacrimae rerum e il sorriso spalancato dell’universo si inseguono in tutte le sue possibili connessioni ed esclusioni: se morire è “sognare, forse”, vivere è godere di quel sogno fino in fondo alla ricerca del suo possibile compimento del destino. Formatasi alla scuola della grande poesia tedesca del Novecento (sue sono alcune magistrali traduzioni di versi della germanica Else Lasker-Schüler e del polacco George Herbert, solo per citarne un paio, ma gli esempi sono molteplici e da molte più lingue), i suoi versi sono accorti e accorti, incapaci di concedersi a languidezze di tono o a cedimenti alla libido dolendi di tanta poesia contemporanea. L’aspirazione della sua poetica è quella di aprirsi alla luce, di conoscere la bellezza della realtà e di accettarne tutte le componenti, anche le più difficili ad accettarsi e, forse a comprendersi. Non a cassa, il percorso critico di Maura Del Serra inizia con un libro aurorale su Campana (L’immagine aperta. Poetica e stilistica dei “Canti Orfici”, Firenze, La Nuova Italia, 1973) che ha aperto una stagione nuova e originale di studi su questo poeta straordinario e ancora oggi poco compreso, sbarazzandosi con nonchalance ed autorevolezza del nodo follia / poesia che fino ad allora lo aveva inceppato nella comprensione critica e andando al nocciolo della sua scrittura e della sua concezione di poetica.
Della capacità ermeneutica della sua lirica Maura Del Serra sembra ben consapevolezza quando si affida a riflessioni di carattere generale sulla sua prospettiva letteraria. Riflettere sulla scrittura e scrivere sembrano nei suoi versi un tutt’uno elaborato e qualificato senza differenze definite:
«Indietro. Un passo indietro, indietro / deve fare il poeta / per misurare attento la gran febbre del mondo / col suo metro di sillabe rocciose e di seta: / un passo indietro, indietro verso l’alto e il profondo / della sua ignota, onnipresente meta: / all’indietro esplorare / i continenti e il mare / rotondo della storia, / bruciando la memoria / in celeste passione / avvolta di ragione; / indietro risalire / la scala dell’origine, e sparire / nel primo acceso grumo / come in aria il profumo» (p. 17).
Compito del poeta è esaminare con distacco la realtà delle cose, facendo un passo indietro per meglio saltare la morta gora del presente e sprofondare nelle scaturigini del passato, il solo luogo dal quale si potrà salpare per il futuro. In questo modo, le sue approssimazioni al nucleo ardente del reale potranno configurarsi come “tentativi” di verità. Si tratta, per la Del Serra, di qualcosa che deve appoggiarsi sulla concretezza della storia e fondarsi sul desiderio dell’origine come aspirazione ad una soggettività che si ritrovi interiorizzata tra le diverse mosse che costituiscono la ragione del suo scrivere e del suo gettarsi al di là dell’ostacolo della passione e della “furia del dileguare” dettati dall’immediatezza. La poesia, allora, deve farsi Destino:
«Senza tempo io vivo nel mio tempo, spremendo / un latte lucido di redenzione / dalle opache mammelle della forza – / goccia a goccia, pagandolo in monete d’addio. / Lascio in pace le stelle – ma come la sirena / lascia il suo mare in pace quando dorme; / navigo dentro gli esseri e le forme / aperte al male come le ferite; / ne canto il girotondo, / il turbine che posa nell’anima del mondo» (p. 66)
oppure più sinteticamente Presagio:
«Come oggi in un cunicolo rovente / confitto nella gloria aspra d’inverno, / come una lunga spada incandescente / nell’acqua gelida, mi troverò / tuffata nell’eterno. Vedrò senza guardare, / sentirò senza udire, sarò, senza apparire, / paradiso e inferno. E cadrà in scaglie il sonno / policromo dei giorni dolceamari, / e saprò come il nome mi abbandoni, / come l’esilio buio mi si schiari» (p. 67).
Il destino è quello di chi si vuole figlio del suo tempo (come la verità) e l’attinge alle “opache mammelle della forza” (un’espressione che sarebbe molto piaciuta a Gottfried Benn), da cui non c’è alcuna possibilità di scampare se non attraverso una scelta di vita radicale che comporta l’immersione nel mare magnum rerum del mondo. Questa ragione d’essere della scrittura coincide con il suo destino e la sua capacità di andare al centro dei problemi dell’esistere e del vivere. Per essa, di conseguenza, il male e il bene (il paradiso e l’inferno) non saranno diametralmente opposti ma entrambi due facce della stessa medaglia. Vivere “senza tempo” si conferma l’opzione della parola che vuole aggettarsi al mondo senza concedervisi in assoluto, accettando così soltanto il gioco dei rimandi e degli spostamenti di luogo e di tempo (la materia di cui sono fatte le esperienze che contano). Il presagio è aspirazione e apertura verso il futuro, consapevolezza del mutare continuo di tutte le cose umane e naturali, consapevolezza della non-eternità delle parole che non vengono dette con purezza di cuore. La poesia, allora, è questo continuo contrarsi del mondo in relazioni linguistiche che descrivono e comprendono da lontano ma non accettano di essere omologate come sostanza transitoria della realtà. L’aspirazione è a un eterno (non omnis moriar) che concede sempre una possibilità a chi non vuole morire del tutto.
Il sistema poetico di Maura Del Serra, dunque, si compone e ricompone come una mappa di navigazione del reale poetico che cerca di coprire tutti gli spazi possibili della vita e si spinge verso orizzonti nuovi che la scrittura precedente non aveva ancora compreso. I sentimenti, i sogni, i desideri che lo ispirano non sono mutevoli ma punti fermi della navigazione verso il Nuovo. Come viene ribadito in un testo composto di brevi brani sapienziali denominati Scintille:
«33. Nel mondo di catene e crudeltà / ha corona segreta la Pietà: / spontanea balza nel cerchio di fuoco, / vi si strugge, è sorgente quando giunge al di là. // 34. Fissai il buio finché venne a fissarmi la luce – / tacqui finché il silenzio mi dipinse la voce. // 35. La poesia sfocia nella sorgente / dove si forma al canto la bocca della mente» (p. 194).
Silenzio e parola si intrecciano e si bilanciano nel gioco di rimandi della vita. La poesia è il ritornare continuo e senza fine alla sorgente del canto e senza di essa la mente e il cuore non possono trovare alcuna conciliazione possibile. Il loro fine è quello di congiungersi nella pietà come sostanza profonda della natura degli uomini ai quali, nonostante “catene e crudeltà”, va lasciata una speranza di vita. E’ forse questa l’unica “certezza” cui la poesia può giungere, l’unica ancora vigente nella diaspora delle ideologie, delle utopie e dei sogni dell’umanità. Per ottenere questo risultato bisognerà ancora aspettare perché non sappiamo ancora a che punto sia arrivata la Notte…
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*Il titolo di questa rassegna deriva direttamente da quello di un grande romanzo (Quel che resta del giorno) di uno scrittore giapponese che vive in Inghilterra, Kazuo Ishiguro. Come si legge in questo poderoso testo narrativo, quel che conta è potere e volere tornare ad apprezzare quel che resta di qualcosa che è ormai passato. Se il Novecento italiano, nonostante prove pregevoli e spesso straordinarie, è stato sostanzialmente il secolo della poesia, oggi di quella grande stagione inaugurata dall’ermetismo (e proseguita con il neorealismo e l’impegno sociale e poi con la riscoperta del quotidiano e ancora con la “parola innamorata” via e via nel corso degli anni, tra avanguardie le più varie e altrettanto variegate restaurazioni) non resta più molto. Ma ci sono indubbiamente ancora tanti poeti da leggere e di cui rendere conto (senza trascurare un buon numero di scrittori di poesia “dimenticati” che meritano di essere riportati alla memoria di chi potrebbe ancora trovare diletto e interesse nel leggerli). Rendere conto di qualcuno di essi potrà servire a capire che cosa resta della poesia oggi e che valore si può attribuire al suo tentativo di resistere e perseverare nel tempo (invece che scomparire)… (G.P.)