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QUEL CHE RESTA DEL VERSO n.80: “De profundis”, all’emergere della luce. Eugenio De Signoribus, “Trinità dell’esodo”

Creato il 03 ottobre 2011 da Retroguardia

QUEL CHE RESTA DEL VERSO n.80: “De profundis”, all’emergere della luce. Eugenio De Signoribus, “Trinità dell’esodo”De profundis, all’emergere della luce. Eugenio De Signoribus, Trinità dell’esodo, Milano, Garzanti, 2011

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di Giuseppe Panella*


“Ci piaccia o no, noi siamo qui per imparare non tanto ciò che il tempo fa all’uomo ma ciò che il linguaggio fa al tempo”

(Josif Brodskij, Fuga da Bisanzio)

 

«Ombre nel bosco. ombre nel bosco / restate lì, nel vostro folto / onniparvente. // ch’io segua il tenue verde / l’appena luce di mezzo / che fa il sentiero // il sottopresente» (p. 57)

 

Che cos’è il “sottopresente”? Il termine, parola-chiave per la comprensione del complesso e spesso oscuro e criptico percorso, lessicale e formale, di De Signoribus, individua la dimensione della poesia come aurora della Storia e strumento potenziale del suo attraversamento quotidiano.

“Quel che conta non è mai ciò che la poesia dice ma ciò che la poesia è” – ha scritto Thomas Stearns Eliot della propria e altrui opera poetica. Anche per De Signoribus conta ciò che la poesia “è” e non tanto ciò che vuole dire apertamente. Importa (e affascina) piuttosto ciò che vuole dire segretamente, occultamente, enigmaticamente. Quello contenuto in Trinità dell’esodo è un percorso che va costantemente seguito e tenuto sotto controllo perché non si tratta del tragitto di un uomo (il classicistico tema dell’ homo viator) quanto di una generazione: le sue illusioni, i suoi sogni, le sue peregrinazioni. Il bisogno di utopia e di trasformazione lo sottende e lo rianima nel momento della crisi, quando la mente vacilla e il corpo si ripiega e si ritrae nel sonno onnisciente dell’oblio:

 

«Il terzo. non dorme: egli è coinvolto / in un inferno dove / raspe lingue l’arringano / che a fatica contiene… // s’imbreccano le vene / nel diverbio penoso… / rincorre nel suo interno / una scheggia a ritroso… // ricorda? Sì, ricorda! / ma tutto è sobillato… / un dì, quell’ora, forse… / ma tutto ora è sfasato» (p. 49).

 

Siamo nei dintorni del mondo ma quest’ultimo sfugge alla presa e alla necessità di possederlo. E’ da questa mancanza che parte il viaggio “a ritroso”. E’ da questa impossibilità che nasce la poesia.

La poesia di De Signoribus è potentemente enigmatica e cerca di conciliare l’andamento lirico dell’attribuzione di senso con la forza evocativa della previsione, della profezia – entrambi cercano poi una conciliazione all’interno del percorso, della traccia che esibiscono e risolvono. Non a caso il libro inizia con un tentativo di evocazione, di ricerca di conferme, di invitation au voyage:

 

«fosse anche un tronco / per l’impervia via / tronca utopia / sarei verso te! …» (p. 11 posto a mo’ di epigrafe e di invocazione).

 

L’utopia è il messaggio ma anche il percorso e anche il sogno che non si smette mai di meditare nel sonno. Quest’ultimo è metafora della mancanza e dell’impossibilità a ritrovarsi ma non solo. E’ anche la condizione da cui si deve uscire per raggiungere l’obiettivo dell’Esodo, la capacità di andare da A a B (con infiniti soggiorni impietriti e trasalimenti di paura) che contraddistinse il popolo ebraico in viaggio dall’Egitto verso la Terra Promessa. Recarsi da un luogo di oppressione e di malvagità e raggiungere la Terra “dove i fiumi scorrono di latte e miele” è il grande obiettivo dei Padri Fondatori. Non si tratta però più di questa fantasia ormai tramontata ma dello spirito che l’animava, tensione morale che va ricostruita e che viene perfettamente enunciata alla fine del volume di De Signoribus, con parole scolpite nel marmo stabile del desiderio epocale:

 

«ecco, utopia, nel quotidiano stento / il tuo volto nell’oltre mi traduce // in quel corso ogni vero ritraluce / prima del chiaro o prima che sia spento» (p. 131).

 

L’obiettivo è esplicitamente definito: la poesia permette all’utopia di poter “tra-ducere” e di far “tra-lucere” il mondo desolato dello “stento quotidiano”. Quello che bisogna operare è il passaggio e dunque l’esodo dal presente verso il futuro salvando quanto si può del presente stesso in cui si vive.

Il percorso attraverso il mondo è scandito da triplici soluzioni di continuità: il sonno, il dialogo (qui etichettato come terzo dopo quelli di Principio del giorno del 2000 e di Ronda dei conversi del 2005), le direzioni (“in esteriore”, “in interiore”, “in retrotempo” – come si legge nella sezione intitolata Rua dello spirito). Il tre domina come principio attivo e spia della trasformazione dialettica. Dunque, il viaggio interiore (“per le interne strade” titola una sezione del libro) è il frutto della ricerca di ciò che non c’è (appunto, l’u-topia) passando e ritrovando quello che c’è. Il deserto che la poesia attraversa è fatta di malinconie e di angosce, di fratture temporali con il passato e di sofferenze non sopite né lenite; il suo dolore è quello stesso di chi vorrebbe trovare un senso al mondo e non ci riesce perché sa che quel senso è finito nel nulla come tutte le sue solitarie illusioni, quelle d’altronde e da sempre condivise con l’umanità sopravvissuta al disastro del Tempo:

 

« […] ma io sono quassù / per un interno richiamo / da un peccato lontano // o forse innato, o innestato! … / e vedo il consesso umano / disperso in sé, deflagrato // e me, tra offesa e difesa, / dilaniato tirarmi fin qui / a gridare senza voce // e mi chiedo a che serva / questo mio ufficio non richiesto / se non da me // questo mio testo orale / solo a te udibile / scalfito e invisibile sui sassi // di questo scosceso canale / che fu un tempo un ghiacciaio / sciolto anch’esso nel nulla… // sì, io mi chiedo / se abbia messo la storia / un punto in chiaro // se una possibilità ci sia / d’imperpetuo dolore / un sogno di liberazione // o solo un durante / che via via si trasformi / da respiro inquietato a un affanno // a un volto che rioscura / al nuovo inganno… e mai / un affido al contrario // a chi un equo tempo si figura / un incondizionato mattino / di un dì senza danno! …» (pp.73-74).

 

scrive il poeta nel suo “dialogo terzo” con la vita cui chiede risposte che quest’ultima non gli può certo dare se non in negativo, montalianamente, senza tuttavia occluderne lo spirito vitale.

Non si saprà mai se c’è un “punto in chiaro” della e nella Storia e se una qualche capacità di comprendere ciò che è stato (o ciò che è) sia presente nel suo corso che è sempre e solo “calettato” (Musil) al contrario. Quello che si conosce e riflette l’essere-qui-ora è solo il “durante”, il während (o l’infra – come lo chiama Hannah Arendt) tra vivere e morire, tra Essere e Nulla: quel “durante” di cui possiamo soltanto conoscere e documentare le “notizie degli scavi”. L’ ”imperpetuo dolore” non può essere sollevato come un velo d’assoluto e di sogno ma può essere soltanto riscattato dal pianto lirico del poeta che fa del proprio percorso il possibile percorso di tutti.

La differenza importante, tuttavia, tra la lirica di De Signoribus e quella dei poeti lirici che lo hanno preceduto (si è fatto il nome di Montale ma vi si potrebbe aggiungere tranquillamente anche quello degli altri “padri fondatori” dell’ermetismo) è, tuttavia, nell’assenza di ricerca eufonica se non per transizione verbale assoluta: le parole frante, spezzate, di sapore forse prosastico, le mescolanze tra neologismi (la più vistosa è “vistura” ma ce ne sono parecchie altre, ad es., l’estremo termine di “smanimando” a indicare il consumo vistoso che arriva fino all’anima) e arcaismi, l’uso di lacerti narrativi che si interrompono e lasciano spazio attivo al silenzio non conducono verso l’armonia del riposo poetico ma lasciano aperta la dialettica tra disperazione ed “eroico furore”. In questa dimensione di affranto e rigoroso nitore linguistico, l’esodo si compone di tante stanze quante sono le tappe necessarie a compierlo senza ricadere nel rifiuto della parola. Esso si compirà quando le parole da utilizzare saranno tutte state trovate nel corso della ricerca:

 

«V. E’ questo il padiglione “Dopo il tempo”: brilla la scritta / sulla pietra miliare n. XIV. Forse l’ultima delle stazioni / in cui si può far agire la propria restante vita. / Dentro paesaggi mobili, quadri di epoche remote e / recenti, dove puoi decidere di entrare per rientrare / o per scomparire… Vi accedono dei barcollanti disorientati, dei volti di / sopravvissuti e inermi… ma anche piccole schiere / di strafottenti guasconi o di annoiati studenti (da dove / vengono, si chiede…, forse da luoghi smarcati / e inclementi, forse hanno sbagliato percorso, uscita). / I primi, vanno in un oltre indistinto, senza porte o / sbarramenti o rifrazioni… / All’ingresso opposto, gli altri digitano le loro opzioni / e stanno in attesa come davanti alla tenda di un circo» (p. 89).

 

In questo sforzo esangue eppure titanico si consuma l’arco della vita. Solo la poesia potrà riscattarlo

con la sua propria capacità di conciliare il destino insondabile con il desiderio più estremo dato che solo “dopo il tempo” il “chiaro lume” sarà acceso o forse spento per sempre. Il compito della poesia è cercare la strada che passa attraverso i “paesaggi mobili” del Tempo per trovare un’uscita possibile che li renda comprensibili (forse), ancora una volta giustificati per gli uomini.

 

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[Leggi tutti gli articoli di Giuseppe Panella pubblicati su Retroguardia 2.0]

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*Il titolo di questa rassegna deriva direttamente da quello di un grande romanzo (Quel che resta del giorno) di uno scrittore giapponese che vive in Inghilterra, Kazuo Ishiguro. Come si legge in questo poderoso testo narrativo, quel che conta è potere e volere tornare ad apprezzare quel che resta di qualcosa che è ormai passato. Se il Novecento italiano, nonostante prove pregevoli e spesso straordinarie, è stato sostanzialmente il secolo della poesia, oggi di quella grande stagione inaugurata dall’ermetismo (e proseguita con il neorealismo e l’impegno sociale e poi con la riscoperta del quotidiano e ancora con la “parola innamorata” via e via nel corso degli anni, tra avanguardie le più varie e altrettanto variegate restaurazioni) non resta più molto. Ma ci sono indubbiamente ancora tanti poeti da leggere e di cui rendere conto (senza trascurare un buon numero di scrittori di poesia “dimenticati” che meritano di essere riportati alla memoria di chi potrebbe ancora trovare diletto e interesse nel leggerli). Rendere conto di qualcuno di essi potrà servire a capire che cosa resta della poesia oggi e che valore si può attribuire al suo tentativo di resistere e perseverare nel tempo (invece che scomparire)… (G.P.)

 

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