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Quel di mezzo che c’è tra il dire e il fare

Creato il 09 novembre 2014 da Arvales @ArvalesNews

heart-of-the-sea_1Il senso dell’antico proverbio popolare è così semplice che lo capisce anche un astemio: tra i tuoi propositi e la loro attuazione c’è un Mare da attraversare; quello che il proverbio non dice è cosa ci aspetta in quel Mare se decidiamo di accettare l’ingaggio: viaggeremo in prima classe con un bicchiere in mano o nella sentina, con stoppa e bugliolo come compagni di avventura?
E quando il sole scomparirà insieme alla sfavillante distesa di affascinanti promesse, nelle notti di tempesta che fanno rimpiangere ai giovani marinai di essersi imbarcati, di non aver ascoltato il consiglio dei saggi di starsene buoni al sicuro, sulla terraferma, a ridosso delle montagne di antiche favole e moderne sciocchezze che proteggono l’anima dall’impeto del suo stesso respiro; in quelle notti, quanti giureranno a se stessi di sbarcare al primo porto?
E se avessero ragione i “Saggi”? Se tutto ciò che ci serve per vivere fosse solo un recinto che ci protegga dai predatori, un luogo sicuro allietato (?) dalla presenza di corpi caldi vicino e intorno a noi?
Il Mare, quel magico di mezzo che c’è tra il dire e il fare recitato dal proverbio, quella liquida disposizione della coscienza a dare pensieri e carne ai nostri sogni, può essere un’efficace metafora del viaggio che un tempo ci siamo sentiti chiamati a compiere: quella fuga dal gregge dal quale abbiamo sentito il bisogno di prendere le distanze.
In molti della mia generazione abbiamo creduto che l’esplorazione del Mare potesse emendare la prospettiva di una vita in bianco e nero ereditata dai genitori; in molti siamo partiti, zaino e sacco a pelo sulle spalle, per tacitare le voci che c’intimavano di considerare i sogni come indesiderati effetti collaterali dell’infanzia. Siamo partiti inseguendo il mito di una vita semplice, libera dalle convenzioni della civiltà, convinti che il problema di quel di mezzo dipendesse dall’approccio della cultura che ci aveva condizionati, dalla paura di confrontarsi con i suoni di lingue sconosciute; abbiamo confuso lo stupore della coscienza che annichiliva di fronte allo spettacolo della natura selvaggia con l’essenza della libertà.
Non so cosa ne sia stato degli altri: so che i più sono tornati in porto alla prima burrasca, paghi di avere qualcosa da raccontare agli amici del bar; alcuni invece, hanno infine trovato la propria Balena Bianca e con essa sono sprofondati negli abissi. Può apparire strano, ma provo nei loro confronti ammirazione e pena nello stesso tempo: li ammiro per la determinazione con cui hanno vissuto fino in fondo il loro incubo, e mi rattrista il pensiero che a ucciderli non sia stato un mostro degli abissi, ma il non aver compreso che non tutto il dire implica l’obbligo ineluttabile del fare, raggiungere a tutti i costi lo scopo che ci s’inventa per dare un senso al proprio vivere.
I proverbi popolari, quelli che resistono al vento della modernità con la forza di querce centenarie, sono dei formidabili indizi per orientarsi nel Sūq maleodorante di significati in offerta speciale che è diventatala nostra cultura.
A chi è appena tornato dalla messa con i pasticcini della domenica dico: attento a ciò che dici e prometti a te stesso, se non vuoi trovarti solo, naufrago in un oceano di sentimenti contrastanti, con lo sguardo atterrito sulla coda del mostro che ha distrutto il fragile guscio dei tuoi sogni.
Ai miei fratelli di sale invece, e a tutti quelli che stanno smaltendo in solitudine i postumi di una sbornia, auguro vada meglio al prossimo imbarco.

Arvales presenta un nuovo intervento: Quel di mezzo che c’è tra il dire e il fare


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