PARTE I
La stazione di Kalka non è la solita stazione indiana. È piccola, pulita, poche persone in coda per il biglietto. Quando arrivo sono circa le undici di mattina, il sole è alto e non c’e una nuvola. Non fa caldo a questa latitudine in questo periodo dell’anno, ma neanche freddo. Il clima è tiepido, perfetto. Il treno, in partenza alle 12.15 è già lì ad aspettarmi. Sarà in orario, dicono. Che bello.
Nell’ora a disposizione ho il tempo, con calma, di sedermi per un chai, mangiare un paio di samosa, che finiscono sempre per diventare quattro o cinque, e anche di comprare il biglietto senza dover fare a gomitate, un biglietto che costa solo 50 centesimi per tutta la tratta fino a Shimla. Cinque ore. Questa cosa dei biglietti del treno in India non l’ho ancora capita proprio bene, ma ad oggi sono giunto alla conclusione che se non hai prenotato in anticipo, presentandoti alla stazione per partire il giorno stesso, ti tocca la terza classe. Che va bene, costa poco, ma io che con le prenotazioni tanto bravo non sono non ho mai la scelta. Ma questo treno è minuscolo e la destinazione è una meta turistica, fuori stagione saranno in pochi a salire.
La prima volta che sento parlare del treno Kalka – Shimla è quando prendo in considerazione l’allungare il mio itinerario indiano verso la base dell’Himalaya e mi trovo di fronte alla possibilità di poter salire lungo l’Himachal Pradesh su questo mezzo storico, quasi leggendario.
La linea ferroviaria risale al 1903, ha più di cent’anni. Il treno, conosciuto anche come toy train – treno giocattolo, è composto da soltanto cinque carrozze, di colore diverso. C’è quella rossa, di prima classe, le due verdi, di seconda, e poi le due blu, di classe ordinaria, la mia. Anche le rotaie sembrano più strette di quelle standard da un metro e mezzo nel resto dell’India, e per percorrere i 96 chilometri di distanza che separano le due località ci mette cinque ore. È facile calcolare la velocità. È un pezzo d’antiquariato insomma, un trenino che sale lento fino a 2.205 metri d’altezza grazie ad una tecnologia che ai suoi tempi era considerata un fenomeno dell’ingegneria meccanica. Dato il fatto che ancora oggi sia lucido ed in funzione non sorprende trovare sul suo fianco la targhetta di Patrimonio dell’Umanità UNESCO. Non è però per il mezzo che si intraprende questo viaggio. È per lo scenario, uno spettacolo che per tutto il tragitto scorre lasciando i passeggeri in silenzio dietro ai finestrini.
La carrozza blu, quella di terza classe, è piuttosto carica. Sono tutti locali, chi in viaggio di piacere e chi di dovere. Nonostante il numero di passeggeri, posso puntare al posto che voglio di più, quello al portellone che rimane aperto per tutto il percorso. Il treno sferraglia lento e un vento fresco mi batte in faccia. Per salire fino a Shimla si bucano le montagne di questa regione ben 103 volte. Le brevi gallerie sono l’unica interruzione che di tanto in tanto riescono a distrarre da una vista unica: uno continuo di onde verdeggianti, che si increspano man mano che si sale, cambiando non solo forma ma anche colore. Sono le colline, che diventano montagne, che durante il mezzo ciclo solare che ci scorre sopra la testa diventano prima blu, poi grigie, poi arancioni e poi marroni.
Il serpente di metallo sale, sale, costeggiando dirupi, oltrepassando minuscoli villaggi, fermandosi a stazioni con una sola panchina. E poi si vede Shimla, una città appesa alla facciata di un colle, con la luce del tramonto che dipinge ogni casa di rosa. Uno studente del posto, notandomi in piedi, mi chiede “Ma perché non hai prenotato la prima classe?”, “Perché avrei dovuto?”, gli rispondo.
PARTE II
Per arrivare da Rishikesh a Shimla ci sono due modi diversi. Il primo, quello ovvio, è prendere l’autobus notturno che con 500 Rupie ti porta da A a B. È diretto, durante il viaggio dormi e risparmi una notte in hotel. Il secondo è tornare giù a Haridwar, prendere un treno per Chandigarh poi prendere un altro treno per Kalka e poi prendere il trenino scenico per Shimla.
Il trenino storico per Shimla dicono sia bello, lo dicono su internet dico perché io mica lo conosco qualcuno che la preso questo trenino, anche perché chi è che a vent’anni va a prendere i trenini storici, uno va a Rimini in vacanza mica su un treno non abbiamo mica settant’anni che stiamo a guardare la vita scorrere da un finestrino. Decido di prendere il treno.
Così torno a Haridwar e compro il biglietto per Chandigarh, il problema è che il treno non c’è. “Ma come non c’è?” gli dico a quelli della stazione, “Eh non c’è” mi dicono loro, “Ma come ho fatto il biglietto dieci minuti fa” gli dico io, “Eh ma non c’è più” mi dicono loro, “Ma come è possibile gli dico io” e loro mi scuotono la testa di traverso come fanno qui perché qui in India è un po’ così, non c’è sempre una spiegazione. Ma poi arriva uno con il turbante che sembra il controllore così mi avvicino sperando di ottenere spiegazioni su questo treno che prima esisteva ma ora ha smesso di esistere proprio quando lo devo prendere io, ma il signore di spiegazioni non ne ha neanche una anzi gli girano anche un po’ le palle e mi guarda come a dire ma cosa vuoi non sei mica in Scandinavia che compri il biglietto e poi il treno arriva, vai a giocare sui binari invece di rompere i coglioni alla gente che lavora. Anche se non lo dice proprio direttamente, però è tutto lì, in uno sguardo. Nella confusione però ne arriva un altro di signore che mi dice ma perché non prendi quello lì di treno che va a Ambala è li vicino, ma io non voglio andare lì vicino, io voglio andare dove dice il biglietto, se volevo andare lì vicino compravo il biglietto per lì vicino no?, e anche lui mi guarda un po’ così come a dire ma dai non fare lo schizzinoso un treno vale l’altro. E così gli do retta allo sconosciuto che mi dice di prendere un treno a caso per un posto di cui mai ho sentito parlare.
Arrivo a Ambala e è uno di quei posti un po’ così, di merda. Prendo un taxi collettivo, per farmi portare a Chandigarh che tanto è vicino mi aveva detto lo sconosciuto, ma poi così vicino non era e essendo in mezzo alla notte finisco in un hotel che diciamo non rientra esattamente nei miei standard, nel senso che per lo stesso prezzo sarei potuto andare a Shimla in elicottero privato.
La mattina prendo il treno per Kalka e lì trovo il trenino che mi deve portare in cima alla collina ad una media di diciassette all’ora. Il biglietto di terza classe qui lo chiamano ordinario ma di ordinario ha ben poco. Mentre sulla carrozza di prima classe anziane signore in pelliccia strusciano le loro dita oleose su scintillanti iPad per fare foto alle tazze dorate di tè appena servito, nella terza classe la plebe ha ormai raggiunto l’ultimo livello della versione vivente di Tetris. Il vagone è talmente pieno che l’aria che si respira è ormai di terza mano, ma noto in lontananza un angolo di treno dalla superficie ancora calpestabile. Mi stabilisco di fronte al portellone aperto ma noto prima con l’olfatto che con la vista il motivo per cui questa posizione sia l’ultima ad essere occupata. Alle mie spalle c’è il cesso. Incastrato tra il pisciatoio e un’apertura che presto darà direttamente su ogni strapiombo della regione, mi consolo pensando che almeno ho trenta centimetri quadrati di spazio tutti per me. Mi sbaglio, perché in India trenta centimetri quadrati sono abbastanza per tre persone. Ma dato che non c’è altro posto ne arrivano altre cinque.
Come solito degli indiani fin dal momento della partenza c’è chi prova a fare amicizia. Qualcuno chiede del mio lavoro, qualcun altro della famiglia, ma nel complesso diventa difficoltoso fare conversazione quando l’unica distrazione al puzzo di urina è l’ascella del vicino in faccia e un vecchio malaticcio che a dargli altri due giorni di vita si sarebbe generosi seduto tra le gambe. Muoversi, qui, comporta una reazione a catena non da poco e anche provare ad alzare il dito medio verso il ragazzo che sta cercando farmi una foto con il cellulare da sette centimetri di distanza dal naso mi è impossibile.
Le ginocchia iniziano a perdere il loro uso dopo i primi venti chilometri, ma per fortuna a questo punto arriva anche la prima fermata, dove per alcuni minuti è possibile scendere e ritrovare il proprio equilibrio. È qui che incrocio per la prima volta il gruppo organizzato di pensionati inglesi che con sguardo schifato si chiedono perché abbia deciso di punirmi in tale modo. E un po’ me lo chiedo anch’io. L’unica consolazione è la speranza che a questa fermata qualcuno scenda e si liberi un po’ di spazio vitale. Ma salgono altre sette persone.
Nel ripartire le posizioni cambiano e a me capita il posto alla porta. Sono appeso praticamente fuori e posso finalmente godermi il paesaggio che scorre. Scatto qualche foto, mi godo l’aria fresca. Per cinque minuti. Poi mi rendo conto che la brezza di montagna che alla ripresa del treno mi stava accarezzando la faccia, alla sua presa di velocità, per quanto minima, si sta trasformando in uno schiaffeggiamento degno di un film di Bud Spencer e Terence Hill. Il vento è così freddo che mi giro cercando nuovamente riparo nell’ascella del mio vicino, ma non c’è salvezza finche i primi passeggeri non cominciano a scendere.
Finalmente posso sedermi. Mi siedo per terra, con le gambe che pendono al di fuori del treno. Ma mi rialzo subito. È bagnato. Sono bagnato. Mi giro, cerco di capire. E non ci vuole molto. Il cesso ha una perdita.
All’orizzonte si vede Shimla. Il sole sta calando. Si sta facendo buio, fa freddo, sono bagnato e puzzo di piscio. Uno studente del posto, notando la mia aria di chi sta considerando di finirla qui e fare un tuffo sulle rotaie, mi chiede “Ma perché non hai prenotato la prima classe?”, “Perché avrei dovuto?” gli rispondo “Perché devo andare in prima classe? Perché non l’hai prenotata te la prima classe?” proseguo. Non risponde. Mi sento in colpa.