Quell’uomo sul metrò e le seconde possibilità

Da Thefreak @TheFreak_ITA

La metropolitana: croce e delizia di ogni cittadino di grande città che si rispetti, inclusa di sicuro anche Roma.

Croce indiscussa per quella sporcizia costante, la ressa, i posti a sedere sempre occupati.

Delizia insindacabile per la velocità degli spostamenti, lo stress da traffico e parcheggio risparmiato.

Ma la metropolitana possiede anche un’ altra piacevole caratteristica che in questi anni di assidua frequentazione ho potuto assaporare: è un’ immensa, dinamica e sempre nuova fucina di vita.

Nei vagoni caldi e sporchi tutti i giorni, a tutte le ore, scorre la vita, pura e semplice, inarrestabile, comune ma sempre unica. Centinaia e centinaia di persone sfilano e passano, immerse nelle proprie vite, indifferenti a quelle degli altri, apparentemente agli occhi di ciascun viaggiatore comparse senza volto e senza storia, elementi casuali di attimi trascurabili.

Eppure basta soffermare per così poco lo sguardo su ciascuno di essi per veder schiudersi un mondo fino ad allora celato alla vista e al cuore.

 In un attimo si gode dell’ essere diventati osservatori di esistenze, ladri di vita altrui. Come è successo a me quel giorno.

Era una mattina come tante altre quando la sveglia ha suonato presto, troppo presto, buttandomi tutto di un colpo in una nuova giornata. Come ogni giorno, preparazione frettolosa ed eccomi arrivare presto, troppo presto, alla fermata più vicina della metropolitana. Destinazione: infinita giornata universitaria.

Entro in un vagone ancora semivuoto e mi sbrigo a trovare un angolino comodo, vicino alle porte chiuse, pronta ad affrontare il caos che di li a poco l’ esperienza mi suggerisce mi travolgerà, senza dover ancora svegliarmi completamente. Mi appoggio con la borsa carica di quaderni e mi crogiolo ancora un pò nel mio torpore, disinteressata a tutto quello che nel frattempo accade intorno a me.

Ad ogni fermata la gente accanto a me si moltiplica, ma la situazione rimane ancora sopportabile.

 Ad una di queste, davanti  a me si sistema un uomo. Non ha nulla di particolare, eppure qualcosa in lui mi incuriosisce. Mi fermo un attimo in più ad osservarlo. È sulla cinquantina, capelli nero corvino portati un po’ lunghi e un po’ disordinati con studiata noncuranza. Gli occhi scuri, profondi, sono per lo più rivolti verso il basso, senza pretese, quasi arresi. Ad ogni frenata del treno si muovono a guardare la stazione nuova, per tornare subito docili al loro posto.

Una giacca di pelle un po’ logora, dal taglio così poco moderno da sembrare baluardo di un’ epoca passata, di ricordi lontani, di stili di vita mai abbandonati. Una borsa marrone a tracolla tutta sdrucita, in contrasto  con le lucide e smaglianti ventiquattrore che riempiono l’ ambiente circostante. Mi da l’ idea di un artista malinconico, forse un pittore o un musicista alla ricerca di una fama che tarda ad arrivare?

C’ è qualcosa di dolce in quest’ uomo, c’ è nella sua postura dimessa, umile, in quel tentativo di occupare il minor spazio possibile, una storia dolorosa alla spalle. Forse un matrimonio finito come non avrebbe voluto, per quella sua instancabile passione che non paga i conti di casa e che lo porta sempre con la testa fra le nuvole. Magari dei figli, dei bambini ai quali non è riuscito a dare quello di avevano bisogno, l’ incapacità di comunicargli che saper sognare, amare è l’ unica cosa di cui hanno davvero bisogno. Magari il senso di fallimento, per tutto ciò che poteva essere e non è stato, per tutto ciò che poteva dare e non ha dato, per tutto ciò che poteva dire mentre sconfitto dalla vita rimaneva in silenzio.

Mentre in un attimo tutto questo viene a galla dentro di me, una voce festosa e tintinnante si fa largo dalla banchina e tenta di entrare. Irritata dalle grida gioiose, inopportune all’ alba di una giornata di studio, per di più in una metro caotica e affollata, cerco con lo sguardo l’ entrata in scena di colei che è colpevole di aver frantumato i miei sogni ad occhi aperti.

Ed eccola la proprietaria della voce sotto accusa, eccola che per fatalità si avvicina energicamente al “mio” uomo. Individuarla fra la gente in entrata è stata davvero una sorpresa: nulla del suo aspetto lascia immaginare che quel parlare brillante, entusiasta, pieno di vita sia davvero il suo. Di certo il suo lato esteriore non ha nulla di allegro né tanto meno appariscente, anzi, a primo impatto quella che appare è una donna austera, seria. Penso ad un colore: il grigio. Una donna grigia, che stona con quell’ arancione vivace che, al suo ingresso, aveva colorato l’ aria tutto intorno. 

Di mezza età anche lei, forse leggermente più grande del suo compagno di viaggio, porta un taglio senza originalità che lascia cadere i capelli mori spruzzati di bianco lisci e composti appena sopra le spalle. I pantaloni pesanti dal taglio maschile sono abbinati ad un golfino a collo alto di colore non definito e nascosto per gran parte da una giacca informe grigia scura. A completare l’ abbigliamento una paio di severe scarpe basse con i lacci e una borsa da lavoro maschile estremamente capiente. L’ immagine un po’ vetusta e superata dell’ impiegata bancaria triste e monotona.

Ma non è solo la voce a cozzare con questa immagine sbiadita, lo sono anche i suoi movimenti. Sono veloci, energici, decisi. Le mani si muovono sapendo quello che fanno, senza remore ma con precisione. Arrivata accanto all’ uomo, lo saluta stringendogli il braccio affettuosamente e senza smettere un’ attimo di parlare. Un treno in corsa. E lui rimane così piacevolmente travolto da quel convoglio, si lascia trascinare senza opporre resistenza. È così strano guardarli per quei pochi minuti. Lui così riservato, chiuso, anticonformista che si lascia portare senza condizioni da quella lei così ordinaria e così allo stesso tempo travolgente.

Ed ecco che lei si ferma, ci pensa un attimo su ed esclama: – Me ne stavo per dimenticare! – Si china, e tirando fuori dalla borsa un contenitore pieno di biscotti fatti a mano, glielo porge con simulata indifferenza e, se non vedo male, un po’ di apprensione.

Ed è qui che l’ uomo misterioso si scioglie, davanti a me, davanti ad un pubblico indifferente e distratto. Lui la guarda, stupito e commosso: – Con tutto quello che hai da fare, li hai cucinati per me? Grazie -. E nei suoi occhi c’ è quello che non riesce a dire, c’ è quel sei straordinaria perché riesci a prenderti cura di tutte le tue cose e anche di me. Mi porti con te e trovi il tempo di farmelo sapere. È un uomo, e in quanto tale non si perde in mille parole, in mille pensieri. Lei si preoccupa per lui. Punto e basta. Come nessuno faceva da anni. Non vuole i soldi per la scuola, non gli rinfaccia il fallimento di un progetto, non lo fa sentire inadeguato per la mia voglia di sognare e cercare il sublime. Pensa e cucina per lui.

E lei lo sa, lo legge nel suo sguardo. Lui le riconosce le mille occupazioni, le tante responsabilità, la fatica quotidiana di stare al passo con tutto. La immagino con un familiare in difficoltà, magari malato, un lavoro pesante per sostenere più persone, attività di volontariato per chi sta peggio di lei ( chi meglio può capire le difficoltà delle persone e la necessità di aiuto di colei che le vive in prima persona?). Lui lo ha capito e quello sguardo avvolgente e riconoscente la ripaga della preziosa ora di sonno persa ad impastare e a sfornare.

Un sorriso timido, due sorrisi timidi, per un attimo nessuna parola, niente di superfluo fra loro, soltanto loro, due esistenze doloranti finalmente capaci di assistersi l’ un l’ altra.

E poi l’ incantesimo si rompe. La metro apre le porte davanti alla stazione Piramide e una quantità improbabile di gente si accalca nel tentativo di metter entrambi i piedi sul pavimento mobile. Scorgo appena lui che la prende dolcemente per il braccio e la sposta davanti a sé, le fa scudo per proteggerla da quell’ esercito di agguerriti pendolari. Lui è lì, è lì per lei, e la proteggerà. E poi perdo di vista quei miei personalissimi eroi romantici perché io, al contrario loro, in quel momento non ho nessun principe azzurro pronto a sacrificarsi per me e, strattonata e spinta, finisco incastrata fra petti e schiene sconosciute.

Eppure quelle poche fermate mi hanno cambiato la giornata, a volte ci vuole così poco. Toccare con mano che tutto non è mai perduto. Proprio quando i piedi scivolano sopra l’ abisso c’ è qualcuno che ci tende la mano. Rifiutare la regola dell’ ormai è troppo tardi per abbracciare senza paura una seconda possibilità. Perché la vita altro non è che una serie infinita di dolci, dolorosi, imperfetti tentativi. Anche sul metrò, perché no.

Racconto inedito di B. F.

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