1994.
Quand’ero ragazza avevo un ammiratore.
No, forse è meglio dire “corteggiatore”.
Si chiamava R.
Non era bellissimo: un po’ grassotello, con gli occhiali, timido. Eppure, nonostante la timidezza, non perdeva occasione per farmi gli occhi dolci e per dirmi quanto suonavo bene.
No, non mi piaceva fisicamente: non era il mio tipo.
Però era sempre gentile e carino.
E mi lusingava sapere che c’era qualcuno innamorato di me.
Ricordo una volta, era un pomeriggio.
Gli dissi: “Sai che venerdì sera suono col mio gruppo? E’ in quel bar, vicino alla piazza; se ti va di venire…”.
Gli occhi gli scintillavano, vedevo la sua felicità.
Mi disse: “Ma certo! Cascasse il mondo, ci sarò”.
Così, quella sera l’avevo aspettato. Anche durante il concerto, guardavo tra il pubblico se c’era quel viso, se c’erano quei due occhi che luccicavano come stelle e che mi cercavano.
Niente.
Ricordo il tavolino vicino al bancone, dopo il concerto: noi musicisti ci eravamo seduti lì. Tutti stretti, tutti felici.
Ricordo di aver chiesto un cuba libre.
Due cuba libre.
Forse tre.
E in mezzo ai cuba libre, qualche birra.
R non era venuto, e nessuno sapeva perché.
Lo rividi dopo un paio di settimane. Aveva un collare ed era un po’ ammaccato.
“Sai – mi disse – avevo talmente fretta di venire a sentirti che non ho rispettato uno stop. Una macchina mi ha investito… Pensa: mi hanno detto che ero steso a terra e continuavo a ripetere che dovevo andare a sentire una mia amica che suonava, che non potevano portarmi all’ospedale… Io non ricordo nulla”.
Parlava e sorrideva.
Forse era felice di dimostrarmi che ci teneva davvero a me.
Ma in fin dei conti R era un timido, non si faceva avanti.
Lo persi di vista per un anno o poco più.
Lui ogni tanto incrociava una mia amica; si confidava con lei.
Le diceva che avrebbe voluto rivedermi, ma non sapeva come fare.
Poi, un giorno prese il coraggio a quattro mani e mi chiamò.
Ai tempi c’era solo il telefono di casa: niente cellulare.
Mi invitò a sentire un gruppo di suoi amici; un concerto facile, senza troppe pretese.
Il cuore mi batteva fortissimo in petto.
Non capivo più niente.
Gli risposi che sarei venuta volentieri, che lo aspettavo sotto casa mia – la patente non l’avevo ancora.
Mi misi il vestito più bello che avevo, cercai di rendermi carina.
Ma era passato un anno.
I miei lunghi capelli erano stati recisi, così, di netto: al loro posto, un taglio cortissimo, quasi informe, che di femminile aveva ben poco.
Ero cambiata.
Il viso era scavato.
Erano rimasti soltanto gli occhi, grandissimi, a parlare per me. A raccontare quello che stava succedendo.
Quella sera, al nostro primo appuntamento, R si comportò in maniera strana; mi riaccompagnò a casa che non erano nemmeno le 23.
Io mi chiedevo perché.
Forse aveva altro da fare.
Forse era stanco.
[… Sì, sicuramente era stanco: per tutta la sera non aveva fatto altro che dire quanto lavorava].
Forse non era a suo agio.
[… Sì, sicuramente non era a suo agio, ma era per via del caldo: per tutta la sera non aveva fatto altro che parlare dell’afa, dell’estate torrida che non sopportava].
Io ero triste come non mai.
La fedele amica mi chiamò dopo un paio di giorni.
R l’aveva chiamata: era sconvolto.
Diceva che non mi riconosceva, che non ero più quella dell’anno prima.
Che gli facevo paura, che non riusciva nemmeno a guardarmi.
Figurarsi starmi vicino.
Solo allora mi misi a piangere. Non perché fossi innamorata di R, no.
Piangevo perché sentivo che la vita si stava allontanando.
Piano piano, passo dopo passo, se ne stava andando.
E si stava portando via tutto di me: amicizie, musica, sogni, passioni, felicità.
***
Maggio 2015.
Con alcuni amici stiamo organizzando una serata revival, un ritrovo di noi musicisti degli anni Novanta. Tra questi forse ci sarà anche R (dimenticavo: anche lui era un musicista).
Dico “forse” perché l’addetta alle public relations, quella che recupera i nominativi e manda gli inviti, sono io.
R non lo vedo da quella nostra prima ed unica uscita.
Facebook è un’invenzione meravigliosa, una memoria storica del tuo passato: ti permette di tornare in contatto con le persone della tua vita in un modo tanto semplice che vien quasi da sorridere.
Così, ho cercato R e l’ho trovato.
Ci ho messo un pochino prima di riconoscerlo.
E’ lui, ma è cambiato; è invecchiato e ha il sorriso spento.
Ho visto che ora è sposato con una donna che è l’esatto contrario di me: una signora che dimostra cinquant’anni, grassa come un rinoceronte, e che del rinoceronte ha lo stesso sguardo. Occhi piccolini, espressione arcigna, zero femminilità. Ho sentito un brivido di terrore quando ho visto questa virago.
Ho chiesto lumi all’amica – sì, sempre lei, quella che faceva da tramite tra R e me. Mi ha confermato quello che sentivo a pelle: sua moglie è un’arpia, una di quelle donne dal carattere orribile, con la voce che sembra un tuono e il piglio di un ufficiale della Gestapo. Una persona bruttissima.
Allora mi sono guardata allo specchio e mi sono vista per quella che sono oggi: una donna sorridente, che ama la vita, che ama l’amore. Che ha tanti sogni.
Una bella donna – perdonate, ma se non me lo dico da sola, chi me lo dirà?
Sì, una bella donna, con un bel carattere: fiera e gentile, dolce, ma anche piena di rabbia positiva quando sente aria di ingiustizia.
Gli occhi parlano ancora, parlano tantissimo. Sono anche più profondi di vent’anni fa, ma non sporgono più.
La pagina Facebook di R era ancora lì, aperta: mi guardava.
In quel momento, mi sono accorta che l’unica attività social di R è condividere i post di Matteo Salvini. Uno più ignobile dell’altro, uno più vergognoso dell’altro. Cose deliranti scritte da persone senza cervello – o fintamente senza cervello.
Mi sono chiesta se R sia sempre stato così, o se sia diventato così con gli anni.
Un po’ mi dispiace.
Eppure, il dispiacere per la sorte di R scompare pensando a quella povera ragazza di tanti anni fa, quella con i capelli corti. Quella che sognava un appuntamento e che era stata riaccompagnata a casa quando i fidanzatini uscivano. Quella che era stata rifiutata perché i suoi occhi e il suo corpo stavano dicendo qualcosa di più grande, di più pericoloso di un post di Matteo Salvini.
Quella che aveva passato la notte chiedendosi cos’avesse di sbagliato per essere rifiutata così.
L’avessi qui, quella ragazza, la abbraccerei forte e le direi che non ha nulla che non va, nulla.
E che le voglio bene, tanto bene.
Come nessuno potrà mai volergliene.