In un precedente articolo, abbiamo parlato della diffusione del gioco degli scacchi nel mondo islamico e del divieto imposto dai dottori della Legge. Questa volta, ritenendo opportuno e interessante il confronto, vediamo cosa accadeva in Occidente nella stessa epoca.
Il gioco degli scacchi cominciò a diffondersi in Europa nell’alto medioevo, in seguito ai contatti con gli Arabi, che a loro volta l’avevano appreso dai Persiani. Questa, almeno, è la teoria più accreditata, e secondo noi più probabile, benché alcuni studiosi sostengano che già ai tempi del basso impero il gioco fosse conosciuto e praticato in Occidente.
Questa ipotesi, che si basa esclusivamente su ritrovamenti archeologici di poco conto e non trova alcuna conferma nelle fonti letterarie, non ci pare attendibile. Se è probabile, infatti, che il mondo romano sia venuto a conoscenza del gioco direttamente dai Persiani, non vi è dubbio che esso rimase per lungo tempo una semplice curiosità esotica, totalmente estranea alla nostra cultura.
Soltanto a partire dal IX secolo il gioco incomincia a entrare nei costumi dei popoli occidentali, e non bastano certo i pochi frammenti d’osso intagliato, rinvenuti nella necropoli di Venafro, o i pezzi conservati ai Musei Vaticani, provenienti da una catacomba del IV secolo, a fondare una teoria sulla diffusione degli scacchi in Europa prima delle conquiste arabe.
E’ dunque agli Arabi che spetta il merito di averci insegnato il più nobile dei giochi. Se ci pensiamo bene, la storia degli scacchi è un po’ come quella del cinema: è vero che Edison e Marey avevano già costruito apparecchi per la ripresa e la proiezione di immagini in movimento, ma nessuno oserebbe negare che furono i fratelli Lumière gli inventori del cinematografo: un conto è servirsi delle immagini in movimento a scopo puramente scientifico, nel chiuso di un laboratorio, e un conto è effettuare una proiezione pubblica a pagamento a cui assistono centinaia di spettatori.
Dalla Penisola Iberica e dalla Sicilia il gioco si diffuse rapidamente nel resto d’Europa e divenne uno dei passatempi preferiti dalle classi privilegiate. L’educazione di un cavaliere non poteva ritenersi completa se non comprendeva la conoscenza degli scacchi e le evidenti affinità fra questi e l’arte della guerra contribuirono non poco alla loro diffusione. Lo stesso Carlo Magno, secondo la tradizione, fu un abile e appassionato giocatore e per questa ragione il Califfo Harun-al-Rashid, volendo ingraziarsi l’imperatore d’Occidente, gli donò un preziosissimo gioco di scacchi. Nella Biblioteca Nazionale di Parigi si conserva un elefante d’avorio che, secondo alcuni, proviene dalla serie di pezzi che fu donata a Carlo Magno dal Califfo delle “Mille e una Notte”.
E fu proprio con quei pezzi che, sempre secondo la tradizione, l’imperatore giocò una memorabile partita contro un giovane e bel cavaliere che, suo malgrado, aveva suscitato l’interesse dell’imperatrice. Si racconta che Carlo non esitò a scommettere la sua donna e la sua stessa corona contro la vita dell’avversario. Com’era nei costumi dell’epoca, la partita degenerò in scontro fisico e, alla fine, il giovane cavaliere riuscì ad avere la meglio, ma, ben contento di aver salvato la testa, non pretese altro che una modesta ricompensa.
La tendenza a trasformare in rissa le partite e l’abitudine di ricorrere all’uso dei dadi per determinare le mosse, attirarono ben presto sugli scacchi gli strali della Chiesa. E le alte gerarchie furono assai severe nel condannare gli scacchi come gioco contrario alla morale. Intorno al 1060, quand’era cardinale di Ostia, san Pier Damiani inviò a Papa Alessandro II una lettera nella quale, insieme alla passione dei dadi e della caccia, condannava anche quella degli scacchi. Ma il santo si spinse ben oltre la semplice condanna formale e arrivò al punto di perseguitare i membri del clero che si dedicavano al gioco, infliggendo loro severe punizioni. Ne fece le spese anche un vescovo, reo di aver trascorso un’intera notte giocando agli scacchi. La cosa non è molto probabile ma, in base a una serie di congetture, alcuni sostengono che quel vescovo fosse addirittura il futuro Gregorio VII.
Anche dopo san Pier Damiani l’atteggiamento ufficiale della Chiesa rimase di netto rifiuto: il Concilium Biterrense, nel 1255, conferma la condanna del gioco e continua ad assimilarlo ai dadi e ad altri giochi d’azzardo. E’ certo, comunque, che sia i chierici sia i laici continuarono a dedicarsi agli scacchi, senza dar troppo peso agli anatemi ed anche l’atteggiamento della Chiesa divenne, a mano a mano, più tollerante. Significativo, a tale proposito, è il fatto che il primo libro stampato in Inghilterra non fu, come si potrebbe immaginare, una Bibbia, ma un gioco degli scacchi “moralizzato”, opera di un teologo che, nel presentarlo ai lettori, lo definisce: “…Pieno di una pia saggezza e necessario agli uomini di tutte le età e di tutte le condizioni sociali”.
Da una iniziale ostilità si passò dunque a un atteggiamento di tolleranza, per arrivare, in epoca più recente, a una completa riabilitazione del gioco. Basti pensare a una grande mistica come santa Teresa d’Avila, che non solo lo praticava, ma addirittura l’insegnava alle consorelle o, per parlare dei giorni nostri, al Pontefice Giovanni Paolo II, che non ha mai fatto mistero della sua passione per gli scacchi.
Sulla liceità del gioco, invece, si continua a discutere nei paesi di tradizione islamica retti da regimi integralisti. In base alla condanna contenuta nel famoso versetto del Corano, gli scacchi sono guardati con disprezzo e in alcuni stati, come l’Iran, è addirittura proibito giocare, in special modo, fra uomini e donne.
Tornando al nostro medioevo, l’atteggiamento delle autorità civili fu assai più tollerante rispetto a quello della Chiesa. In numerosi statuti comunali, nei quali si dichiarano illeciti e si condannano i giochi d’azzardo, ben altra considerazione è rivolta agli scacchi, riconosciuti come un gioco d’ingegno perfettamente lecito.
Alla fine dell’età medievale, insomma, il gioco degli scacchi era largamente diffuso e universalmente stimato in tutto l’occidente; la migliore testimonianza è quella di Dante che, nel Canto XXVIII del Paradiso, paragona il numero infinito degli angeli al “doppiar degli scacchi”.
Federico Bernardini
Illustrazione: San Pier Damiani (Andrea Barbiani XIII secolo), fonte http://it.wikipedia.org/wiki/File:Pierodamiani2.JPG