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Quelle ribelli

Creato il 03 settembre 2010 da Renzomazzetti

SIBILLA ALERAMOSeguì un intenso, strano periodo, durante il quale non vissi che di letture, di meditazioni e dell’amore di mio figlio. Ogni altra cosa m’era divenuta del tutto indifferente. Avevo solo la sensazione del riposo che mi procurava quella esistenza così raccolta, uniforme, senza sotterfugi né paure. Un silenzioso istinto mi faceva porre da parte i problemi sentimentali, mi teneva lontana anche dalle letture romantiche delle quali m’ero tanto compiaciuta nell’adolescenza. La questione sociale invece non aveva nulla di pericoloso per la mia fantasia. Io ero passata nella vita portando meco un’inconcepibile confusione di principi umanitari, senza aver mai il desiderio di dar loro una qualsiasi giustificazione. Da bambina avevo nutrito in segreto l’amore dei miseri, pur ascoltando le teorie autocritiche di mio padre. I miei componimenti contenevano in proposito degli squarci retorici che mi sorprendevano e mi lusingavano, e facevano sorridere bonariamente il babbo. Nella mia educazione era stato uno strano miscuglio. Nessuna pagina immortale era stata posta sotto ai miei occhi durante la mia fanciullezza. Il passato non esisteva quasi per me, non andava oltre i miei nonni, cui sentivo accennar qualche volta; e la storia che m’insegnavano a scuola mi appariva non come la mia stessa esistenza prolungata all’indietro indefinitamente, ma figurava davanti alla mia fantasia come un arazzo, come una fantasmagoria. Io non potevo quindi, in quel tempo, che riportarmi alla realtà immediata, e tutto m’erà divenuto oggetto d’esame. M’ero condotta a considerar di mia iniziativa l’essere umano con un’intensità eccezionale, formandomi con inconsapevoli sforzi un culto dell’umanità non del tutto teorico. Se le condizioni di famiglia non m’inducevano ad approfondire il fenomeno delle disuguaglianze sociali, ciò che notavo incidentalmente a scuola e per via mi metteva nell’animo una volontà confusa di azione riparatrice. Partita dalla città, piombata in paese incolto, avevo ben presto, sotto l’esclusiva influenza di mio padre, smarrito quel senso di larga fraternità che nei grandi centri è imperioso ed attivo, avevo concepito il mondo come un gruppo d’intelligenze servito da una moltitudine fatalmente ignara e pressoché insensibile. Ma anche questa credenza non aveva tardato a sconvolgersi, per cagione prima, credo, d’un piccolo episodio avvenuto verso i miei quattordici anni. Era a colazione da noi il padrone della fabbrica, un blasonato milionario. Questi aveva sfogliata una rivista alla quale mio padre era abbonato. La trovava bella, ma troppo cara. Ciò aveva ai miei occhi innalzato la mia famiglia di fronte al riccone che possedeva due pariglie e non aveva una rivista… M’ero troppo incoraggiata a chiacchierare, perché, parlando del mio ufficio, avevo detto la nostra fabbrica. E correggendomi la mamma, il conte aveva soggiunto: Lasci! E’ come il mio cocchiere che dice i miei cavalli. La stizza che mi aveva invasa subitamente aveva anche scossa la mia concezione della società. Più tardi il matrimonio aveva prodotto una specie di sosta nel mio sviluppo spirituale. Ed ecco che infine penetrava in me il senso di un’esistenza più ampia, il mio problema interiore diveniva meno oscuro, s’illuminava del riflesso di altri problemi più vasti, mentre mi giungeva l’eco dei palpiti e delle aspirazioni degli altri uomini. Mercé i libri io non ero più sola, ero un essere che intendeva ed assentiva e collaborava ad uno sforzo collettivo. Sentivo che questa umanità soffriva per la propria ignoranza e la propria inquietudine: e che gli eletti erano chiamati a soffrire più degli altri per spingere più innanzi la conquista. Un giorno della mia infanzia mio padre mi aveva parlato di Cristo. Mi aveva detto ch’era stato il migliore degli uomini, il maestro della sincerità e dell’amore, il martire della propria coscienza. Io avevo chiuso in petto quel nome, ne avevo fatto l’occulto simbolo della perfezione, senza adorarlo tuttavia, felice semplicemente di sapere che un sommo era esistito, che l’essere umano poteva, volendo, salire fino a rappresentare l’ideale della divinità, l’aspirazione all’eterno. Come mi era parsa puerile la mitologia cristiana! Cristo non era nulla, se Dio; ma se egli era uomo, diveniva il fiore dell’Umanità, non un dio diminuito, ma l’uomo nella sua maggior potenza. E sempre Gesù, il Gesù di Genezareth sorridente ai bimbi, il Gesù indulgente verso la pentita, incapace di rancore, sereno nell’ammonimento come nella profezia, aveva brillato davanti alla mia anima, figura ideale che mi pareva di veder offuscarsi di tristezza ogni volta ch’io mi allontanavo dalla bontà e dalla verità. Dopo mesi, forse dopo anni di smarrimento, io rivedevo il sorriso di Cristo su la mia strada, e mi rivolgevo a lui come a una fonte d’ispirazione. Per alcun tempo vagheggiai una dottrina che unisse la soavità dei precetti del Galileo, sorti dal grembo della natura, alla potenza delle teorie moderne emanate dalla scienza e dall’esperienza, la libertà con la volontà, l’amore con la giustizia. Era come un’orientazione, come l’affermazione di una armonia. Attorno a me, frattanto, molte cose prendevano un significato, attiravano la mia attenzione. Mi accorgevo con lento stupore di non essermi mai prima chiesta se io avessi qualche responsabilità di quanto mi urtava o mi impietosiva nel mondo circostante. Avevo mai considerato seriamente la condizione di quelle centinaia di operai a cui mio padre dava lavoro, di quelle migliaia di pescatori che vivevano ammucchiati a pochi passi da casa mia, di quei singoli rappresentanti della borghesia, del clero, dell’insegnamento, del governo, della nobiltà, che conoscevo da presso? Tutta questa massa umana non aveva mai attratto altro che la mia curiosità superficiale; senza esser superba né servile, io ero passata fra i due estremi poli dell’organizzazione sociale sentendomene isolata. Non avevo mai accolta l’idea d’essere una sposata, a cui l’osservazione del mondo si presentava in circostanze eccezionalmente favorevoli. Il mio allontanamento dai volumi di scienza era una colpa assai meno grave di quella che consisteva nell’aver trascurato di gettar gli occhi sul grande libro della vita. Ed ora? Non potevo andare fra il popolo, né rientrare in quell’ambiente il cui contatto mi era stato fatale; la mia reclusione, per forza d’abitudine, era diventata ormai così spontanea, che non si sarebbe potuta rompere senza sommuovere nuovamente l’esistenza della nostra casa. Dovevo limitarmi a raccogliere l’eco che saliva dalla strada alle mie stanzette. Il giovane che mia sorella amava s’era in quell’inverno impegnato in una lotta che gli aveva alienato del tutto l’animo di mio padre: organizzava gli operai della fabbrica, li univa per la resistenza; il socialismo penetrava mercé sua nel paese. Mio padre proibì alle due ragazze di riceverlo più oltre in casa. La fidanzata era smarrita. Malgrado la contrarietà di mio marito invitai il giovane ingegnere in casa mia. Come luccicavano gli occhi della fanciulla la prima volta che le feci trovar da me, senza preavviso, l’amato! Per lei, per l’altra bimba, per mio fratello già sedicenne, non potevo far altro, purtroppo, che assicurare quell’appoggio.

QUELLE RIBELLI
Compievo su di me uno sforzo riparatore troppo grande perché mi avanzasse l’energia di dedicarmi efficacemente a quei poveri abbandonati del mio sangue. Dal giovane fui informata con esattezza del movimento che sollevava le masse lavoratrici in tutto il mondo e le opponeva formidabili di fronte alla classe cui appartenevo. Egli aveva studiato all’estero, aveva viaggiato, e, tornato nella sua regione da due anni per dirigere i lavori di un nuovo tronco ferroviario, aveva sentito il bisogno prepotente di tentare qualcosa per quelle miserevoli popolazioni, da cui egli era pur germinato. Mia sorella accettava tutto a priori; le idee vivevano, palpitavano nel giovane, ed ella non poteva distinguerle da lui. Io discutevo, m’infervoravo. Lenta nell’espressione, per amor di sincerità e di esattezza, inesperta nella dialettica, mi provavo poi a riprender la mia libertà di spirito a tavolino e scrivevo sul quaderno stesso a cui avevo confidato lo sfogo del mio dolore. Mi compiacevo cedendo all’impulso, poi arrossivo, assalita dal dubbio di esser vittima d’una sciocca ambizione incipiente, di recitare una parte, come nei tempi lontani in cui, bimba, mi figuravo davanti allo specchio d’essere una dama affascinante. Ma continuavo, nondimeno, con impeto. Pensare, pensare! Come avevo potuto tanto a lungo farne senza? Persone e cose, libri e paesaggi, tutto mi suggeriva, ormai, riflessioni interminabili. Talune mi sorprendevano, talaltre, ingenue, mi facevano sorridere; certe ancora recavano una tale grazia intrinseca, ch’ero tratta ad ammirarle come se le vedessi espresse in nobili segni, destinate a commuovere delle moltitudini. La loro varietà era infinita. Tanta ricchezza era in me? Mi dicevo che probabilmente essa non aveva nulla di eccezionale, che probabilmente tutti gli esseri ne recano una uguale nel segreto dello spirito e solo le circostanze impediscono che tutte vadano ad aumentare il patrimonio comune. Ma non ero persuasa dell’ipotesi. Tanta incoscienza e noncuranza erano intorno! Il dottore avrebbe potuto fornire una base ai miei studi colla sua scienza, ma egli non si curava più di nutrire il suo spirito: le necessità urgenti della sua professione l’occupavano troppo, e il suo scetticismo gli faceva apparire troppo ipotetico un mutamento di condizioni secolari, il sollievo d’una miseria fisiologica ereditaria. Mi diede però alcuni libri, trattati di biologia, manuali d’igiene, di storia naturale. E sorrideva con simpatia non priva di canzonatura, quando gli mostravo che ne avevo tratti sunti e note. Egli era per me un fenomeno malinconicamente interessante. Mi chiedevo ancora se erano esistiti e se esistevano rapporti intimi fra lui e mia cognata, e il solo sospetto mi riusciva umiliante. Ma come viveva egli scapolo? Il caso di mio padre mi faceva fermar l’attenzione sul fatto sessuale e ne traevo riflessioni amare. Ecco, anche questo giovane, che professava un tal rispetto per me e riconosceva delle verità superiori, conducendo una vita esemplare secondo le convenzioni sociali, aveva una vita segreta forse non confessabile… Chi osava ammettere una verità e conformarvi la vita? Povera vita, meschina e buia, alla cui conservazione tutti tenevan tanto! Tutti si accontentavano: mio marito, il dottore, mio padre, i socialisti come i preti, le vergini come le meretrici: ognuno portava la sua menzogna, rassegnatamente. Le rivolte individuali erano sterili o dannose: quelle collettive troppo deboli ancora, ridicole, quasi, di fronte alla paurosa grandezza del mostro da atterrare! E cominciai a pensare se alla donna non vada attribuita una parte non lieve del male sociale. Come può un uomo che abbia avuto una buona madre divenir crudele verso i deboli, sleale verso una donna a cui dà il suo amore, tiranno verso i figli? Ma la buona madre non deve essere, come la mia, una semplice creatura di sacrificio: deve essere una donna, una persona umana. E come può diventare una donna, se i parenti le dànno, ignara, debole, incompleta, a un uomo che non la riceve come sua eguale; ne usa come d’un oggetto di proprietà; le dà dei figli coi quali l’abbandona sola, mentr’egli compie i suoi doveri sociali, affinché continui a baloccarsi come nell’infanzia? Dacché avevo letto uno studio sul movimento femminile in Inghilterra e in Scandinavia, queste riflessioni si sviluppavano nel mio cervello con insistenza. Avevo provato subito una simpatia irresistibile per quelle creature esasperate che protestavano in nome della dignità di tutte sino a recidere in sé i più profondi istinti, l’amore, la maternità, la grazia. Quasi inavvertitamente il mio pensiero s’era giorno per giorno indugiato un istante di più su questa parola: emancipazione che ricordavo d’aver sentito pronunciare nell’infanzia, una o due volte, da mio padre seriamente, e poi sempre con derisione da ogni classe di uomini e di donne. Indi avevo paragonato a quelle ribelli la gran folla delle inconsapevoli, delle inerti, delle rassegnate, il tipo di donna plasmato nei secoli per la soggezione, e di cui io, le mie sorelle, mia madre, tutte le creature femminili da me conosciute, eravamo degli esemplari. E come un religioso sgomento m’aveva invasa.

QUELLE RIBELLI
 Io avevo sentito di toccare la soglia della mia verità, sentito ch’ero per svelare a me stessa il segreto del mio lungo, tragico e sterile affanno… Ore solenni della mia vita, che il ricordo non potrà mai fissare distintamente e che pur rimangono immortali dinanzi allo spirito! Ore rivelatrici d’un destino umano più alto, lontano nei tempi, raggiungibile attraverso gli sforzi di piccoli esseri incompleti, ma nobili quanto i futuri signori della vita! SIBILLA ALERAMO (tratto da ”Una donna”.)

SILENZIO

Il silenzio è tornato

ancora una volta

a chiudere le palpebre

per costringere gli occhi

a non vedere più niente.

Nel buio

un cuore batte ancora

e il sentimento che racchiude

cose mai viste

apre nuovi orizzonti

e dalla terra estraniandosi

cerca nuovi sorrisi.

-Renzo Mazzetti-

(Orizzonti, Ragusa,2001)

 

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- M A R Z I A L E -

 


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