E quanto me ne importa.
Stamattina mi sentivo giù. Mi basta poco, in genere, così come mi basta poco anche per esaltarmi. Ma oggi, con questo tempo ballerino, e poi sono una donna, e poi ancora avevo una cosa qui che mi rodeva per un fatto contingente, di esaltazione oggi, beh, nemmeno l’ombra.
Il punto è che a volte mi annichilisce la consapevolezza della vacuità del tutto, o forse mi piacerebbe solo non percepirmi una di tanti.
Mi rifletto in una vetrina e mi sorprendo migliore del numero progressivo che la società mi appioppa. Ah, se gli altri mi vedessero come mi vedo io.
Quando sono vagamente depressa divento un po’ Tafazzi, vado a cercarmi rogne, come si dice a Roma, che dopo mi compiango meglio.
Avevo colto un titolo che pareva foriero di tremenda indignazione, l’ho seguito fino a un articolo di Luca Mastrantonio sul Corsera che impallinava i politici che strizzano l’occhio ai riti populisti, come quello dei selfie sparati a ripetizione sui social network. Perché chi lo fa cerca di dimostrare
a) di esistere
b) di avere il pollice opponibile, unico requisito evolutivo richiesto
c) di essere importante — vale per le persone comuni —, perché qualcuno ti sta fotografando, anche se è un autoscatto
d) di essere come tutti — questo vale per le persone importanti —, perché ti fai fotografare con chiunque.
Risultato? Una sbronza globale di narcisismo e demagogia.
Per superare l’onta sono andata in palestra dove l’allenatore ha osservato: “Anvedi che figurino me stai a mette su, France’” e a me m’è ripartito l’up, tanto che mi sono guardata bene allo specchio e ho pensato: non sfigurerei in un selfie.
Questo degli autoscatti è un tema inevitabile.
Ecco che Floris e Severgnini presentano i loro libri a Otto e mezzo. Apprendo quindi che, anche se questo tempo richiede di essere veloci, per i politici (ma sì, oggi tutto è veloce, perché non la politica? Buttiamola in battuta, così non mortifichiamo nessuno: noi cambiamo quattro ministri intanto che in Inghilterra ne è in carica uno solo, pappappero) è importante non disabituarsi all’esercizio di qualità più durature.
La resilienza, ad esempio. Una parola in apparenza goffa, ma invece tanto italiana. Che significa elasticità, capacità di tornare allo stato originale dopo un trauma. che esprime l’eroismo quotidiano, la poesia nelle cose che fanno le persone che hanno una vita veramente difficile. Bisogna essere orgogliosi di essere normali (e intanto si noti bene che resilienza è anche una parola molto in voga tra i pediatri).
Ammetto di essermi distratta, dei tanti nessi che non ho capito c’è quello tra il narcisismo dei politici e questa conclusione: La generazione che è stata adolescente negli anni Ottanta è stata l’ultima a guardare con ottimismo al futuro. E il periodo attuale è simile agli Ottanta perché si sta assistendo al crollo di una certa classe dirigente, ma oggi noi (noi generazione, non tanto la politica) abbiamo l’obbligo di restituire alle nuove leve ciò che abbiamo loro sottratto.
Dobbiamo restituire loro l’ottimismo, quindi, ma non prima di aver ispirato i politici con con la nostra resilienza, col nostro orgoglio scopertamente infantile per tutta la nostra sfiga.
Che simpatica demagogia di ritorno quella di certi giornalisti.
Potrei provare a leggere i due libri, perché no. Ma mentre lo sto pensando mi assale uno squadrone di sbadigli, e sono botte.
Meno male che, a seguire, Crozza fa travestire Berlusconi da Regina d’Inghilterra.
È sera ormai, sono tornata su. Quando mi sento così, pigio sull’acceleratore e faccio anche cose turpi, ma nella media. Non sono in politica, quindi non esprimo populismo o demagogia, bensì mi viene facile immergermi nei riti popolo, contentarmi delle piccole gioie riservate al demos.
Crozza mi ha ispirato, non ci penso due volte: mi faccio un autoscatto mascherata.
Anvedi che figurino. Adesso posso anche dispensarla qualche lezione di ottimismo.