Dieci minuti prima è seduto al bancone della rosticceria cinese, c’è entrato più per distrazione che per scelta. Ha ordinato cibi non riconducibili a qualcosa di noto indicandoli con il dito e facendo sì sì con la testa alle domande in una lingua ancora e troppo cinese del cinese. Prima di uscire chiede del bagno, non è agibile, finisce che si pettina fuori, sotto l’insegna.
Quindici giorni prima con la pettorina arancione è di servizio come volontario per la protezione civile a una corsa ciclistica, evita che i corridori si buttino giù per una stradella che fiancheggia il fiume agitando per quel che basta un braccio e una paletta.
Sei mesi prima armato di forbici sminuzza con meticolosità i resti che gli ha messo via la cameriera bassina della trattoria per portarli alla colonia di gatti dietro al cimitero. Non li ama i gatti, ma è pur sempre qualcosa da fare. Del resto la trattoria sta per chiudere, resistono solo le pizzerie, non sarà eterna nemmeno questa storia dei gatti.
Quattro anni prima sta nella saletta della caserma dei Carabinieri, ha di nuovo rifilato un paio di pugni a una vecchia in autobus, ormai non lo denunciano nemmeno più, il maresciallo gli farà un nuovo e più roboante cazziatone e lo minaccerà con le parole più semplici che saprà trovare.
Quarant’anni prima, nella corte circoscritta dalle case popolari, se ne sta seduto sopra a un pallone che ha già sbattuto fino allo sfinimento contro il bandone di un garage, senza che nessuno venisse a dargli manforte e senza che una massaia s’affacciasse a dirgli di smetterla con quel casino. Guarda le bambine che giocano a campana e si dice che è un gioco da femmine, mentre dondola con il culo sul pallone per darsi un tono. Le bambine sono le sue compagne di scuola o di dottrina con le loro amiche, ma nessuna se lo fila.
Si sfidano e si prendono in giro per ore e, quando se ne vanno, non resta che il vento, forse, a ricordarne i saltelli e le risa e quel sasso piatto abbandonato sulla riga tra il sei e il sette.