Quello non ero io – tredicesima puntata

Creato il 10 febbraio 2011 da Olineg

opera di Jr, 2010, Grottaglie (Ta)

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A Las Vegas abbiamo giocato due partite; nella prima siamo andati in pareggio, ci siamo lavorati un avvocato di Prati, non abbiamo strafatto, era solo per testare il campo. E poi l’avvocato aveva un gran culo. La seconda volta capimmo che ci serviva uno meno rampante, qualcuno che fosse meno sveglio, Bradpitt puntò un vecchio che si aggirava con sguardo annoiato. Gli chiese se voleva essere il quarto al nostro tavolo, lui sembrò piacevolmente sorpreso. Le fiches le cambiavano gli uomini della sicurezza, uno di loro restava vicino al tavolo finché la partita non cominciava, rimaneva lì per ascoltare gli accordi tra i giocatori, sul tipo di gioco, le puntate massime, il numero di mani, e altre condizioni, rimaneva lì per ascoltare e ricordare, ed eventualmente districare controversie. Le prime mani andarono lisce, avevamo intenzione di affondare solo pochi colpi, pochi e decisivi. Facemmo il primo scambio; guardai le carte, avevo una coppia di dieci, Bradpitt mi comunicò di avere due assi, io ne avevo un altro, scartai le tre carte e preparai il full, Carlito fece quello che doveva fare. Io rilanciai, Bradpitt vide la giocata, il vecchio che fino a quel momento non aveva detto una parola, passò, ma non subito, prima lanciò le sue carte al centro, scoperte, mostrando un tris di donne, e solo allora passò. Le carte finirono il giro, prima che potesse farlo Carlito, il vecchio fece ad un gorilla il segno convenzionale per avere un nuovo mazzo. Gli fu consegnato, il vecchio porse lentamente le carte a Carlito, fissandolo negli occhi, e poi parlò: -Ah rigazzì la vuoi raccontata una storia? Io so diventato quello che so diventato partendo da zero… in America si dice che sò un self made man, comunque quanno ero un pischelletto nun c’avevo manco na lira, manco sapevo come erano fatti li sordi, però coll’amici andavamo in giro, prendevamo un sacco de treni, ma siccome pure loro erano spiantati come a me, di biglietti manco a parlarne; appena salivamo sur treno c’era chi si nasconneva in bagno, chi rimaneva in piedi pronto a darsela se vedeva il controllore, ma io no, io me ne annavo in prima classe, occupavo pure due, tre posti. E nun m’hanno fatto mai manco mezza multa, e lo sai perché? Perché chi si comporta così il biglietto ce l’ha di sicuro, sò  l’altri, quelli che se nascondono, che non ce l’hanno… ah rigazzì chi fa le cose di nascosto alla fine si fa scoprire sempre…
Poi scoppiò a ridere e scosse Carlito con delle pacche paterne. Era una cazzata, un colpo di teatro, ma funzionò alla perfezione; Carlito andò nel pallone, mentre mescolava tremava, quella mano la giocammo puliti; ci eravamo giocati il cartaro, per il resto della partita.
Arrivammo alle ultime mani con un leggero vantaggio per il vecchio. Con Carlito ko dovevamo arrangiarci io e Bradpitt, e alla penultima mano Bradpitt tirò su le maniche della camicia, non lo aveva mai fatto, non ci era mai capitato, significava che Bradpitt era servito, che aveva un punto a cinque carte. Il mazzo toccava al vecchio, e parlava per ultimo, Carlito e io passammo, Bradpitt puntò, puntò tutte le sue fisches, tutti i nostri soldi. Per un giocatore patologico perdere trentacinquemila euro in sette secondi non è un grande problema, è il costo del biglietto per i sette secondi più intensi della sua vita, ma noi eravamo uomini d’affari, non ce ne fregava un cazzo dei sette secondi, noi giocavamo per i soldi. Bradpitt aveva cinque carte di cuori, un punto quasi sempre vincente, quasi sempre. Il vecchio aveva un poker di sette, un poker debole, ma pur sempre un poker.
Quel vecchio si chiamava Antonio Bruno, detto l’Americano, o Rain man per il suo talento soprannaturale nel black jack. Quel vecchio era uno dei bari più temuti d’Italia. Dopo la partita ci portò a casa sua, un’enorme appartamento a Trastevere, ci offrì da bere e ci disse tutto, ci disse in cosa avevamo sbagliato, ci spiegò alcuni trucchi, ci disse come aveva fatto a servire il colore a Bradpitt, e a sé stesso il poker, ci disse un sacco di cose. Però i soldi se li tenne. Fu un seminario sul gioco d’azzardo, un master da trentacinquemila euro.
Io e Bradpitt cominciammo a seguire l’Americano di tavolo in tavolo, non avremmo mai imparato quello che sapeva fare lui, ma era uno spettacolo grandioso: godere di due mani che in pochi secondi fatturano il guadagno annuo di un impiegato è forse immorale, ma è terribilmente affascinante. Diventammo i ragazzi dell’Americano. Girammo le ville e gli attici di mezza Italia. Poi più nulla. Sparì.
L’Americano soffriva di depressione bipolare, la malattia dei grandi; oggi sei in grado di fottere Al Capone, domani non hai la forza di alzarti dal letto. Mi telefonò dopo due mesi.
-Stasera non si lavora; stasera mi voglio divertire.
Disse.
Andammo a giocare a casa di un sottosegretario. l’Americano aveva bevuto, biascicava le parole, e rideva, troppo. Mostrava a tutti il suo rolex che non avevo mai visto, diceva che era l’unico lusso che si era permesso nella vita. Il vestito poi; un completo da sartoria con un taglio che era fuori moda già nel quaranta, e che puzzava di naftalina da sentirsi male.
La partita fu un disastro, l’Americano perse ogni mano, e più perdeva più beveva. Poi una giocata dal nulla. Un tipo che si era presentato come imprenditore fece una grossa puntata, tutti passarono, eccetto l’Americano, ma non aveva neanche un quarto di quello che c’era nel piatto, chiese se potevano fargli credito, nessuno rispose, allora lui si sfilò il rolex e disse con gli occhi lucidi: -Questo è un Patek Philippe in oro bianco da diciotto carati, vale ottantamila euro, o forse novanta, chiedo di metterlo nel piatto… a sessantamila.
-Facciamo sessantacinque.
Disse l’imprenditore in un moto di arrogante generosità, e firmò un assegno per coprire il resto della somma. Aveva una scala, l’Americano un full.
-Fammi togliere sta giacca da vecchio rincoglionito…
Disse l’americano prima di entrare in macchina.
-Tiè, te lo regalo.
Era il suo Patek Philippe.
-L’ho comprato a Portaportese, a venti euri…
-Ok, a questo c’ero arrivato, ma come sapevi che avresti vinto con un full di dieci? quello stava giocando forte…
-E chi lo sapeva? Ti avevo detto che stasera volevo solo divertirmi… ora prendi la Cassia che andiamo a bere da Landini… ora mi voglio ubriacare per davvero.
Lo portai a casa alle cinque del mattino, non si reggeva in piedi. Lo accompagnai fino a letto, come si fa con i bambini. Con la testa sul cuscino smise di ridere, indicò la stanza con un movimento circolare del dito.
-Questa casa era di una mia zia zitella, era una sarta, e questa casa una sartoria, ma una sartoria di quelle… si serviva tutta la Roma bene da mia zia. Io ero sempre qua, e lo sai perché? Spiavo le donne che si provavano i vestiti, avevo fatto i buchi ai muri, me so fatto certe pippe… mia zia lo sapeva, ma faceva finta de niente, nun le importava che stavo qui per vedè le donne, je piaceva che stavo qui e basta. La casa l’ha lasciata a me, no all’altri nipoti, solo a me… forse l’altri nun se facevano le pippe.
Quella fu l’ultima volta che vidi l’Americano.

Continua…

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