Quello sparo che ha incantato tutto il mondo
Creato il 07 febbraio 2013 da Giuseppeg
Quando si pensa al neorealismo, il primo nome che ci viene in mente è certamente quello di Roberto Rossellini. Del suo cinema si è già detto di tutto. Qui ci limiteremo a ricordare che, dopo di lui, il cinema ha imparato a sbarazzarsi di tutta una serie di parametri superflui, e ha riscoperto la sua vocazione più autentica: imitare la vita. Da questo punto di vista, Roma città aperta non è soltanto un capolavoro assoluto, ma è anche un vero e proprio manifesto di pensiero, un modo nuovo di intendere il cinema; come dimostra la sequenza che vedremo. Siamo a Roma, durante la fine della seconda guerra mondiale. Pina (Anna Magnani) è la promessa sposa di Francesco (Francesco Grandjacquet), un partigiano impegnato in missioni di sabotaggio contro l’esercito tedesco. La coppia è spalleggiata da don Pietro (Aldo Fabrizi), un prete antifascista in stretto contatto con i partigiani. Proprio nel giorno fissato per le nozze, una pattuglia di tedeschi e fascisti circonda all’improvviso la casa di Pina: è un’imboscata. Immediatamente i soldati irrompono all’interno. Molti tra gli uomini imboscati riescono a fuggire prima di essere trovati; le donne e i bambini vengono invece ammassati in un cortile interno, in attesa che si concluda il rastrellamento. In mezzo alle donne c’è anche Pina. Il suo carattere franco, generoso mal sopporta l’ingerenza dei nazisti; il suo anelito per la libertà si amalgama e si confonde con la sua dignità di donna. Una guardia cerca di accarezzarla, ma lei si difende con uno schiaffo. Il suo coraggio non è certo inferiore a quello degli uomini che combattono. A un certo punto, si accorge che i soldati hanno trovato qualcuno, e lo stanno portando via: è Francesco! A quel punto, non c’è più niente che può fermarla. Pina urla, chiama, invoca: vuole raggiungere il fidanzato, vuole fermare quella carneficina. Il ritmo del montaggio accelera sensibilmente. Una cinecamera inquadra la donna per qualche istante, mentre si fionda verso l’’uscita; un’altra la attende all’esterno, in posizione leggermente defilata, per non invadere la scena: Pina si sbraccia, impreca, cerca di liberarsi dalla stretta dei soldati. Don Pietro è lì vicino e fa il possibile per fermarla. La sequenza non ha nulla di teatrale; è asciutta, concisa, laconica persino. Pina riesce a passare; con uno scatto si ritrova in strada, appena dietro la camionetta con il suo promesso sposo. La macchina da presa è proprio all’altezza del veicolo. Per seguire la donna, nel suo rapido tragitto dall’edificio alla strada, effettua un leggero ‘movimento a schiaffo’ verso destra, uno spostamento rapido sul proprio asse: il personaggio è inquadrato a fatica, e sentiamo che il suo destino potrebbe sfuggirci. Osserviamo un attimo lo sfondo, adesso: i soldati a sinistra continuano imperterriti nel loro pattugliamento; non badano a lei; la storia di Pina è solamente una delle tante storie che si svolgono in quel momento, in quell’epoca, in quel posto. Il montaggio continua a monitorare gli stacchi, a volte molto bruschi: per un attimo, vediamo don Pietro coprire il volto del suo chierichetto, il figlio di Pina. È quasi un preannuncio di morte. Alla fine, con la stessa inquadratura di qualche istante prima, dalla strada, vediamo Pina correrci incontro, con il braccio proteso; all’improvviso uno sparo: la cinecamera trema, e si abbassa leggermente per seguire il movimento della donna che si accascia al suolo. Il tutto avviene in pochi istanti, e senza alcun melodramma. Il bambino le corre incontro piangendo, e la abbraccia mentre lei è distesa al suolo. Don Pietro la sostiene, alla stessa maniera della Pietà vaticana; il bambino si dispera fuori campo, incrementando ulteriormente la drammaticità dell’episodio, che si conclude di lì a poco. Le immagini stentano a contenere la realtà; i bordi dello schermo sono confini arbitrari, fittizi: in verità intuiamo benissimo che oltre c’è un mondo intero che si muove, che respira. La cinepresa è un testimone imperturbabile; accompagna soltanto l’azione, senza mai influenzarla. Attraverso quelle riprese sporche, nel movimento traballante della macchina, la realtà è affidata a sé stessa, perché il cinema non la commenta. Le sovrastrutture abituali di un normale film commerciale comprendono già, in se stesse, le azioni che devono supportare; ogni ripresa, ogni scena ha come fine lo sviluppo della trama, la anticipa e l’interpreta. Qui invece no. La realtà accade nonostante l’obiettivo della macchina, che si limita a inquadrare ciò che riesce: solo così può scongiurarsi la finzione, e imitare davvero la vita.
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