Chi mi conosce sa che da molti anni non voto alle elezioni — l’ultima volta che l’ho fatto è stato per un partito di sinistra, quando ancora (forse) la sinistra esisteva. E sa pure che in tutti questi anni ho sempre invitato a non votare, per un unico e semplice motivo: che l’Italia essendo stata deprivata della sovranità nazionale dopo il 1945, tutti i partiti e gli schieramenti politici del paese altro non sono che marionette tirate da fili in mani molto lontane da qui. Come spiegava benissimo Ernst Jünger nel suo magistrale Trattato del Ribelle, stante quella situazione era auspicabile “passare al bosco”: rimando al testo jüngeriano ( e mettendo da parte l’odiosa falsa modestia ricordo che sull’argomento ho molto scritto e molto parlato — invano — a suo tempo).
Poi è arrivato il Movimento Cinque Stelle, portando una ventata d’aria nuova sulla scena politica italiana.
Attenzione, ora, a non ripetere nei confronti del termine “nuovo” lo stesso fatale errore compiuto da molti in un altro campo, attribuendo del tutto erroneamente al termine “evoluzione” il significato di “progresso, miglioramento”: in realtà, sia il termine “nuovo” che il temine “evoluzione” implicano un solo e ben preciso concetto — cambiamento. Laddove “cambiare” significa rendere una cosa diversa da quel che era prima, conferendole caratteri finora sconosciuti — nuovi, appunto.
E che il greco antico traduca con neoterìzein, “fare cose nuove”, il nostro “fare la rivoluzione” non è un dato trascurabile.
Perché l’Italia unita non ha mai conosciuto una vera rivoluzione. Nel bene e nel male, quella del 28 ottobre 1922 non è stata una rivoluzione in senso proprio: la rivoluzione, ammoniva Mao, non è un pranzo di gala — se la si fa sul serio, è fatale mettere sossopra i salotti buoni , rompere qualche suppellettile e lasciare macchie di sangue in giro. Soprattutto, una rivoluzione seria deve eliminare la classe dirigente preesistente, cioè metterla in condizione di non avere più accesso alle leve del potere, per sostituirvi persone nuove ovvero diverse (il che, fra l’altro, evita o limita esponenzialmente il rischio di guerre civili). L’Italia questo non l’ha fatto. Nata dalle guerre risorgimentali — che notoriamente non miravano ad alcun “bene comune” —, è cresciuta fra sommosse popolari, sanguinose repressioni, guerre mondiali e civili, fino a strutturarsi nella repubblica parlamentare come la conosciamo noi, rovinosamente declinata dopo che il miracoloso boom economico degli anni Sessanta ebbe finito di erodere le fondamenta gettate nei decenni precedenti, col sudore e col sangue, dai nostri nonni e bisnonni.
Ma torniamo alla rivoluzione e alla classe dirigente: perché la crisi del 2008, dalla quale discendono tutti i nostri mali presenti, ha subdolamente rinfocolato una brace che si credeva sopita ma che invece ardeva ancora — la lotta di classe, mutata nella forma ma non nella sostanza.
Lo dico convintamente, sulla scorta delle molte conversazioni avute con tante persone nel corso degli ultimi mesi. A sostenere tutti i vecchi partiti — le cui magagne sono state più o meno abilmente camuffate grazie a un sofisticato restyling — sono immancabilmente tutte quelle persone che hanno ancora qualcosa da perdere e a cui non sono disposte a rinunciare: che si tratti di una pensione decorosa, di un posto (miracolosamente e non si sa per quanto ancora) fisso, di una solidità professionale o accademica, tutti coloro che godono di questi privilegi — davvero incommensurabili , coi tempi che corrono — restano tenacemente attaccati a quella famosa “via vecchia” abbandonando la quale l’incauto “sa quel che lascia ma non sa quel che trova”.
Al contrario, chi non ha più niente da perdere — perché è rimasto senza lavoro, o ha una pensione da fame, o è strangolato da mutui e tasse —guarda con favore alla “via nuova”, consapevole che niente e nessuno potranno peggiorargli la situazione o rendergli la vita più invivibile di quanto già non sia (la media è di un suicidio al giorno, ma sui giornali non lo leggerete).
Così, si scava lentamente ma inesorabilmente un abisso fra chi ostinatamente difende lo status quo per non perdere quel poco (spesso quel pochissimo) che ancora ha e che lo separa orgogliosamente dai nuovi poveri, e chi altrettanto ostinatamente spera e desidera e vuole e si batte perché qualcosa finalmente cambi — ma cambi sul serio e richiuda una volta per tutte la fogna a cielo aperto che è da almeno trent’anni la politica italiana.
Si tratta di un abisso incolmabile, e non lo dico per usare un tòpos retorico: è incolmabile davvero, perché sul suo ciglio, da una parte e dall’altra, stanno due diverse visioni del mondo — con tutti i corollari del caso.
In questo senso Grillo aveva ragione quando diceva che senza il M5S ci sarebbe stata violenza per le strade: perché il nuovo soggetto politico sorto dal (quasi) nulla è riuscito, incanalandolo, a catalizzare il diffuso malcontento popolare in una forma di protesta trasversale e organizzata che è riuscita a entrare nei palazzi del potere per esprimersi conformemente alle leggi vigenti, per dare voce democraticamente agli innumerevoli singoli che, da soli, non avrebbero mai potuto farsi ascoltare. Non è un risultato da poco.
È anche per questo che io, stavolta, andrò a votare. E voterò M5S: per ricostruire bisogna prima abbattere, e sono stanca delle tante ristrutturazioni di facciata che, di fatto, hanno lasciato quei palazzi drammaticamente immutati. Cambiare non è più un’opzione, è un imperativo. Cominciamo a sparigliare le carte — poi, si vedrà.