1. Oggi persiste quasi esclusivamente a margine di mostre, fiere o esposizioni, ma un tempo era usanza d’ogni famiglia dabbene avere un album sul quale gli ospiti vergavano la propria firma, spesso con dedica, e quello dei Borgese era davvero originale, una tovaglia di lino quadrata, 175 cm per lato, sulla quale gli ospiti firmavano con un tratto di matita sul quale la padrona di casa provvedeva a far scorrere in ricamo un filo di cotone rosso a punto erba: Gabriele d’Annunzio e Igor Stravinskij, Grazia Deledda e Anna Kuliscioff, Eleonora Duse e Giovanni Gentile, Giovanni Amendola e Benito Mussolini, Filippo Turati e Alcide De Gasperi, Gian Francesco Malipiero e Felice Casorati, il generale Cadorna e Sibilla Aleramo, e poi Aldo Palazzeschi, Cesare Zavattini, Dino Buzzati, Corrado Alvaro e tanti altri, 718 per la precisione, in una selva di allunghi, curve, occhielli e intozzate, che davvero è «figurazione del “Secolo breve”», come Corrado Stajanoscrivesull’ultimo numero de la Lettura(Corriere della Sera, 8.12.2013), rammentandoci la figura di Giuseppe Antonio Borgese, oggi ingiustamente trascurata.Bell’articolo, bisogna dire, dal quale riporto un passaggio sul quale può tornare utile riflettere: «Benedetto Croce l’aveva tenuto a battesimo, poco più che ventenne, pubblicando la sua tesi di laurea, Storia della critica romantica, elevandolo sul gradino più alto della cultura e non fu avaro di elogi, burbero com’era, scrivendo di un suo saggio su Gabriele d’Annunzio. Borgese visse così la giovinezza in quella privilegiata cerchia crociana, da critico amato e stimato dal sommo maestro.Poi accadde l’irreparabile pagato a caro prezzo. Borgese non fu benevolo nel recensire lo studio del Croce sul Vico. Il gran patriarca che teneva in pugno la cultura italiana della prima metà del Novecento e non tollerava critiche, e neppure ragionevoli appunti, prese le distanze da quel suo precocissimo allievo: cominciò così un ostracismo durato per tutta la vita. Croce ebbe crude parole. Borgese, che non restò silenzioso, fu da allora stroncato, denigrato, insultato dai critici più autorevoli dell’epoca, da Renato Serra a Luigi Russo a Giuseppe De Robertis. Nel conflitto con Benedetto Croce e i crociani più fedeli contarono non soltanto le diversità del giudizio critico, ma anche quelle caratteriali. Il successo mondano di Borgese, da cui il Croce e i suoi, infastiditi, dicevano di rifuggire, era disturbante»Efficace, ma lo sarebbe stato di più ricordando che le molestie dei crociani inseguirono Borgese fino agli ultimi anni della sua vita, quando insinuarono che il suo secondo matrimonio con la figlia di Thomas Mann, dopo la morte della prima moglie, fosse stato di convenienza. Né tuttavia c’è da stupirsi che la cerchia dei crociani fosse capace di simili schifezze, perché la lobby di Palazzo Filomarino rimane paradigma eloquentissimo, per varietà ed esemplarità di casi, di quanto un imprenditore nel campo della cultura – ritenere oggi Benedetto Croce un «pensatore» è mero anacronismo – possa farsi boss mafioso.2. Sui danni causati da Benedetto Croce alla cultura italiana e al movimento liberale in Italia mi sono già intrattenuto in altre cinque o sei occasioni su queste pagine, qui mi limiterò a sottolineare solo questo aspetto. A tal fine sarà inevitabile il ricorso a nomi, fatti, date che spesso si condenseranno nel momento aneddotico, sicché voglio da subito mettere in chiaro che quanto qui riportato non attiene al vacuo pettegolezzo, ma trova riscontro in fonti che non hanno mai trovato smentita, neppure da parte delle solerti sentinelle che per uno o due decenni dopo la sua morte hanno montato di guardia al mito che egli stesso aveva provveduto a costruirsi in vita.Le condizioni in cui oggi versa questo mausoleo fanno tanta più pena quanto più si pensi alle energie spese per erigerlo e al numero di quanti parteciparono alla sua costruzione seguendo supinamente, non di rado con entusiasmo, le indicazioni di chi pensava di dovervi riposare in eterno, meta dello stesso devoto pellegrinaggio di cui fu fatto oggetto Palazzo Filomarino fino a quando fu in vita. In fondo, paragonata alla straordinaria fortuna che godette fino alla sua morte, la sorte cui il suo pensiero andò incontro dovrebbe essere di monito a quanti sono convinti che si possa conquistare l’eterna memoria dei posteri riposando nel monumento delle proprie idee, eretto reclutando manipoli di cretini, più o meno talentuosi, animati da incoercibile pulsione gregaria.Mai come nel caso di Benedetto Croce, questo calcolo si è rivelato errato: già dieci anni dopo la sua morte – il 20 novembre 1952 – il suo sistema filosofico era a pezzi, e ogni contorno della sua figura – lo storico, il critico letterario,l’uomo politico – sbiadiva. Già vent’anni dopo, le sue opere non erano più ristampate: già allora era lecito affermare che il neoidealismo crociano fosse morto e sepolto con Benedetto Croce.«Che la realtà si riduca allo spirito che la conosce e che fuori di essa non sia nulla – scriveva Nicola Abbagnano nel ventennale della sua morte – appare oggi come una tesi anacronistica, perché ogni considerazione o interpretazione del rapporto tra soggetto e oggetto di conoscenza evita la riduzione dell’uno all’altro». L’assioma crociano che voleva la filosofia come sistema totale e perfetto che esaurisce in sé tutta la realtà veniva sbriciolato proprio dall’evidenza dell’efficacia di quelle scienze di cui Benedetto Croce aveva dichiarato l’irrilevanza al fine di comprendere il reale e che, a lungo mortificate, si presero una micidiale rivincita, e tuttavia su di esse peserà ancora a lungo il pregiudizio che l’egemonia culturale crociana aveva imposto per oltre cinquant’anni. Se in ambito scientifico l’Italia è indietro di almeno un mezzo secolo rispetto al resto d’Europa, lo dobbiamo anche – ma non è esagerato dire soprattutto – al disprezzo che Benedetto Croce non risparmiò alla matematica, alla fisica, alla biologia, alla psicologia, alla sociologia, ecc. Ma questo l’ho già scritto e non è il caso mi dilunghi nel ribadirlo, tanto più che nel 60° della sua morte, quest’anno, è stato pressoché unanime giudizio della critica (uno per tutti, penso al bel libro di Elio Cadelo e Luciano Pellicani, edito da Rubettino) che il ritardo dell’Italia sulla via della modernità, dopo la Controriforma, è imputabile proprio a Benedetto Croce. Che d’altronde resta venerato solo dai suoi discendenti, da Corrado Ocone e da qualche rancido avanzo del più inconcludente Novecento, del calibro di un Marco Pannella e di un Angiolo Bandinelli.3. Una cosa è da precisare, prima di ogni altra. Ogni cerchia intellettuale che ruoti attorno alla figura di un patriarca riproduce, più o meno evidentemente, le dinamiche relazionali del gruppo settario. Quando la figura del dominus riesce, poi, a dare un senso a quella dei clientes, è la norma che elementi di natura psicologica si embrichino indissolubilmente a quelli che agiscono sul piano materiale nell’acquisizione, nel mantenimento e nella perdita di vantaggi. Con Benedetto Croce e i crociani, tuttavia, siamo dinanzi a una vera e propria cancerizzazione di questa costruzione, che trova i suoi più distintivi aspetti in bozzetti narrativi che la psicoanalisi ci ha illustrato come patognomonici del gruppo che sceglie a leader una personalità gravemente disturbata.In primo luogo, e il caso di Borgese si offre come ottimo esempio, abbiamo una costante: i più validi seguaci si trasformano ineluttabilmente in detrattori, mentre quelli meno capaci sono immancabilmente destinati al ruolo di domestici. In secondo luogo, la fedeltà di questi ultimi costruisce un sistema sul sistema: in pratica, le falle della costruzione del pensiero sono rinsaldate da interdizioni dogmatiche che lo rendono impermeabile ad ogni sorta di arricchimento, prim’ancora che refrattario alla revisione critica e al suo fisiologico sviluppo.È fin troppo ovvio che in questi due aspetti vengano a prevalere, almeno sul piano sintomatologico, cioè su quello dei segni che contraddistinguono il carattere della «scuola», gli elementi passionali dell’illusione e della disillusione, della devozione e dell’invidia, della riconoscenza e del risentimento. E tuttavia, per ciascuno dei momenti che rappresentano al meglio queste epicriticità emozionali, il medium che se ne fa latore – direi quasi la maschera che dà carattere al moto passionale – conserva inalterato il movente dal quale procede. In altri termini, volendolo riconoscere, possiamo rintracciare sempre nella storia della «scuola» la cifra biografica del suo fondatore. Qui, nel caso di Benedetto Croce, con l’ambivalenza nei confronti di Bertrando Spaventa e di Francesco De Sanctis. Ma su questo torneremo più avanti.
Qui, aprendo la carrellata delle miserie grandi e piccole che fanno da segnalibro alla produzione del «Padre Pio della filosofia italiana», come lo definì Clotilde Marghieri, basti in esergo il ricordo che Vittore Branca affida ad Indro Montanelli (Diari 1957-1978): «Giovanni Gentile aveva lasciato la propria libreria alla Biblioteca Nazionale di Roma. Siccome lo Stato ha facoltà di accettare o rifiutare questi lasciti, dopo la guerra il ministro della Pubblica Istruzione, Arangio Ruiz, chiese a Croce un parere. Risposta di Croce: “Non posso esprimermi perché non conosco la libreria di Gentile. Però conosco la sua nullità di pensiero e di cultura e quindi ritengo che anche i suoi libri siano di scarso valore”» «Quest’uomo –chiude Montanelli –era grande soprattutto nella meschinità» Cercherò di dimostrare che la sua meschinità era misura del monumento vuoto e cadente che ci ha lasciato. [segue]