La politica e i No Tav: paura della democrazia.
di Angelo d’Orsi
Il silenzio della politica, la politica ha taciuto, il disinteresse della politica… e via seguitando: è tutto un coro uniforme, nella stampa mainstream (ossia quasi tutta), a proposito della Val Susa, e degli ultimissimi eventi, tra la gigantesca, pacifica e per così dire sorridente manifestazione di sabato 25 nella Valle, gli scontri susseguenti alla stazione ferroviaria di Porta Nuova a Torino (a occhio mi è parsa una sorta di imboscata), e il tragico incidente che ha portato quasi in fin di vita Luca Abbà. Ma anche, vorrei ricordare, le stupide contestazioni – da parte di alcune frange del movimento No Tav – a Gian Carlo Caselli, e i tentativi di impedire la presentazione di un suo libro. Proprio da lui vorrei cominciare (rispetto alla cui decisione di emettere mandati di cattura ai danni di alcuni militanti ho già espresso qui le mie perplessità, pur sottolineando i suoi meriti incancellabili di difensore della indipendenza della Magistratura e della dignità della Giustizia), da un suo commento alla notizia dell’incidente al traliccio: nessuna causa, ha detto Caselli, vale una vita umana. Ne è proprio sicuro?
Non parliamo degli articoli indecenti apparsi su fogli al di sotto di ogni sospetto quali Il Giornale e Libero, che irridono al militante Luca, ovviamente, i quali neppure possono giungere a concepire che esistano delle cause per le quali si può arrivare a mettere in gioco la propria libertà e addirittura la vita; parliamo invece del senso comune per cui “non vale la pena”, non vale mai la pena. Non vale la pena di battersi per “cause perse” – come è stato scritto, dando per scontato che quel nuovo treno attraverserà, ossia distruggerà la Valle –, non vale la pena di lottare contro decisioni assunte dal Parlamento (e perché mai, non si dovrebbe?), o peggio “ratificate” da trattati internazionali. Il Patto d’Acciaio tra Hitler e Mussolini non era forse un trattato internazionale? Era giusto? Ha portato bene al nostro Paese?
Se si segue la logica delle decisioni prese a livello istituzionale si accetta l’idea che ai popoli non resti che subire: piegare la testa sotto il peso di uno Stato che dovrebbe esercitare “un dominio fermo” su di essi, per citare il solito Botero, nella sua Ragion di Stato: ma eravamo nel 1589! Due secoli dopo ci fu la Rivoluzione della Bastiglia. Ed entrammo nella modernità. In mezzo quanta acqua, e quanto sangue, sono scorsi sotto i ponti non solo della Senna, ma anche della Neva, del Po e così via. Si sono combattute lotte secolari per restituire ai popoli una sovranità non solo apparente e formale, che non si limiti alla compilazione di una scheda elettorale. Sono decenni che parliamo di “partecipazione”, di “potere dal basso”, di “democrazia autentica”, eccetera. La battaglia contro il Treno ad Alta capacità (più che alta velocità, ma bisognerebbe parlare sempre piuttosto di “alta voracità” di gruppi finanziari e imprenditoriali, nonché delle cosche malavitose interessate) si inserisce precisamente in questo ambito.
Si tratta di una battaglia per restituire ai cittadini un ruolo pieno e attivo. La politica è partecipazione alle decisioni comuni, e questo non può avvenire soltanto in quei due minuti in cui tracciamo una croce su un simbolo o su un nome nel segreto dell’urna. La politica è presenza in tutti i luoghi di aggregazione, è dire la propria idea, anche quando appare contraria a quelle maggioritarie, o che tali i media vogliono presentare, bombardandoci con messaggi menzogneri o inesatti. La politica non può essere confinata nelle aule parlamentari, né nelle istituzioni locali; la politica è bisogno, diritto e, vorrei dire, dovere, di prendere parte alla vita della città, contribuendo alle scelte più utili alla collettività.
E la scelta del Tav non è utile, anzi è dannosa, come dimostrano tutti gli studi seri di esperti indipendenti, è dannosa sul piano economico, ambientale e paesaggistico: dannosa per tutti, tranne che per quei pochi che vi lucreranno. Un ritornello, ripetuto ossessivamente, e che nelle ultime 72 ore è diventato un coro (non per la numerosità di chi lo canta, ma per la sua rumorosità mediatica) che si sia “ormai” deciso – “decisione irreversibile” ripetono i Fassino e i Cota, “opera strategica”, rincalzano i Passera e via cantando… – , viene usato come una prova della bontà dell’opera, della sua necessità, della sua utilità. Ma quando si invitano i pro-Tav a discutere con gli esperti, si sottraggono, affermando abbassando gli occhi: “Abbiamo discusso abbastanza”. Vedi le dichiarazioni in questo senso, reiterate, di alcuni dirigenti del Pd a livello locale e nazionale.
Discutere, ho detto, e ripeto. E non si discute con i bastoni. Ma neppure usando i manganelli, troppo spesso a sproposito. Anzi, l’aggressività delle forze dell’ordine (viene voglia di mettere qualche punto interrogativo) verso gli oppositori del Tav, pare inusitata e piuttosto inquietante. Come si spiega? Forse, direi, col dato politico: il Pd è favorevole all’opera, e considera, non diversamente dallo schieramento di centrodestra, chi è contrario un soggetto residuale, patetico, da metter in condizione di non nuocere. E davanti all’unanimismo (o quasi) delle forze politiche in Parlamento, si può tranquillamente passare alle maniere forti. Ma, allora, perché non si interroga la cittadinanza? Lasciando che tutti spieghino le proprie ragioni? Perché si ha paura della democrazia?
E la si smetta per favore di dire che la parola “deve tornare alla politica”: anche il movimento No Tav, vastissimo e variegato, fa politica. Anche coloro che scendono in piazza, che marciano sulle strade, che salgono sui tetti o sui tralicci, coloro che cercano, in ogni modo, mettendosi in gioco personalmente, di fare controinformazione rispetto alla propaganda dei media addomesticati o comprati, fanno politica. E vanno rispettati. Occorre dar loro la possibilità di farsi ascoltare, capire, e magari far vedere che al di là dei voti di parlamenti screditati e corrotti, essi sono i più autentici rappresentanti della “volontà popolare”. E la loro battaglia – ripeto un concetto che ho espresso più volte – non è localistica, o particolaristica: essi stanno difendendo alcuni primari “beni comuni” e hanno diritto alla solidarietà attiva di quanti (credo fermamente si tratti della maggioranza del Paese) abbia a cuore quei beni.
Perciò, sperando Luca sopravviva e possa riprendere il suo ruolo nella lotta, questa è una buona causa per la quale combattere. E Luca e i tanti suoi compagni e compagne, di ogni ceto ed età, che gli sono accanto, con alto rischio personale, come si è potuto, purtroppo, constatare, stanno lottando anche per quegli italiani e quelle italiane che i cortei e le lotte li seguono alla tv e magari cambiano canale infastiditi.
foto di Cesare Quinto
Da Nuovasocietà.