Leggo nella posta di Specchio dei tempi del quotidiano nazional-sabaudo di qualche giorno fa, la seguente missiva:
«Sono un papà e non sono esperto di politica. Ma mi domando: il signor Brunetta richiede giustamente di aumentare l'orario lavorativo degli statali, di evitare festività inutili, controllo sui giorni di malattia, aumento dell'età pensionabile... «Poi le scuole trovano qualsiasi pretesto per stare chiuse. E con loro i maestri e i professori. Ma non sono statali pure loro? «E noi da poveri genitori lavoratori dipendenti ci troviamo a dover affrontare delle situazioni impossibili, tipo il ponte dei Santi, 15 giorni a Natale, dieci a Carnevale, dieci a Pasqua, feste patronali e qualsiasi altro ponte che solo le scuole fanno. Oltre, purtroppo, agli eventuali giorni di ferie da sacrificare in caso di malattia dei bambini. In estate ci sono i centri estivi, ma neanche sempre (mi son ripetutamente chiesto perché ad agosto debbano chiudere). Ma almeno durante l'anno dovrebbero garantire l'apertura in tutti i giorni non generalmente considerati "festivi". Penso con giornate "leggère" e lùdiche, magari non obbligatorie, in modo che gli eventuali assenti (quelli con i genitori che vogliono usufruire di tali giorni di vacanza) non debbano recuperare il programma e i presenti non debbano rimpiangere troppo lo stare a casa».
Leggo, e non posso fare a meno di alterarmi.
Non mi altero perché il papà in questione si dichiara inesperto di politica e invece è semplicemente inesperto dei meccanisimi che riguardano la scuola che i suoi stessi figli frequentano: già ,perché le scuole non trovano qualsiasi pretesto per stare chiuse, le scuole devono attenersi ad un Calendario Nazionale emanato dal Ministero e ad un Calendario Regionale deciso dagli USR e possono decidere solo di tre o quattro giorni di vacanza all'anno da attaccare qui e là, e tale collocazione deve essere approvata dal Consiglio d'Istituto, dove è largamente rappresentata la componente genitori (che spesso, in casi come questi, fa la voce grossa).
Non mi altero perché il conto delle festività fatto dal signor padre è assolutamente inventato: dieci giorni a Carnevale? E quando mai? Ma il signore ha guardato il calendario scolastico dei suoi figli (che tra l'altro, in Piemonte, quest'anno è praticamente blindato dal calendario regionale)?
Non mi altero per lo stereotipo trito e ritrito degli statali fannulloni: vogliono che lavoriamo di più, anche quando i ragazzi non sono a scuola? Benissimo, che si faccia una proposta seria (ad esempio, lo spostamento degli organi collegiali e delle attività di programmazione) e la inseriscano nel CCNL – che, tra parentesi, è scaduto e bloccato dal 2008.
Non mi altero perché secondo il signor padre i ponti li fanno solo le scuole, però, immancabilmente, tutti gli anni in cui gli istituti in cui ho insegnato hanno scelto di non fare vacanza a Carnevale (o ponte al 1 maggio o al 2 giugno) io mi sono ritrovata con le classi decimate dalle assenze dei vacanzieri.
Non mi altero quando il padre manifesta l'esigenza di avere delle attività organizzate che occupino i ragazzi quando le scuole sono chiuse, perché capisco bene le difficoltà di conciliare gli impegni lavorativi con un figlio piccolo in vacanza.
Mi altero, però, quando l'idea che emerge è quella di una specie di scuola parco-giochi in cui posteggiare i figli; mi fanno rabbrividire quelle giornate leggére e ludiche, magari non obbligatorie a seconda del desiderio di vacanza della famiglia, senza preoccupazioni per il numero di assenze o per il lavoro da recuperare. L'esigenza reale delle famiglie italiane è che i ragazzi passino più tempo a scuola? Benissimo, ma la scuola è scuola: si studia, si lavora, si fa esercizio, e chi è assente deve rimettersi in pari al rientro in classe. Quello della "ricreazione" e dell'accudimento non è compito dell'istituzione scolastica: altri sono gli enti pubblici deputati a rispondere a questo bisogno.
Ciò che mi spaventa, in questo genitore, in questo adulto, così come in molti altri, è la mancata accettazione delle regole del gioco e il tentativo di piegarle ai propri interessi: come si può pensare che i ragazzi si assumano i doveri che la scuola impone loro, se i primi a cercare una scappatoia di comodo sono proprio le persone che per prime dovrebbero educarli? Come si può pensare che un ragazzino prenda seriamente qualcosa che può utilizzare a proprio piacimento, da cui può entrare ed uscire quando vuole senza alcuna preoccupazione?
Se, come mi hanno sempre detto i miei finché sono rimasta a vivere con loro, questa casa non è un albergo, ecco, tantomeno credo che possa esserlo la scuola.