Che il sindacato sia così debole nei confronti del gruppo Arvedi è ben noto. La causa, per quel che si può comprendere, risiede almeno nei rapporti fra politica e imprenditoria.
La maggioranza dei sindacalisti inevitabilmente proviene o fa parte del centrosinistra, dal Pd soprattutto. Fino a qualche anno fa i sindacalisti della Cgil, precisamente i segretari provinciali, erano componenti di diritto dei direttivi di federazione dei Ds-Pds-Pci.
L’evoluzione del centrosinistra fa sì che non pochi sindacalisti si riconoscano in Sel o altri partiti.
La cultura politico-economica dominante non consente grande autonomia. Da un lato i sindacati sono ostacolati dagli obiettivi renzisti, bonannisti, marchionnici, dall’altro sono continuamente pressati dall’esosità dall’arretrata classe imprenditoriale, che deve le proprie fortune spesso a ricchezze ereditarie e familiari e a gestioni poco esemplari. Non esiste una classe dirigente imprenditoriale in grado di salvaguardare l’equilibrio del sistema. Infatti aumentano smisuratamente le disuguaglianze.
Arvedi concentra troppi poteri: editoriale, economico e anche politico, a suo modo, facendo sentire il suo peso nei confronti dell’amministrazione comunale di Cremona. Troppi poteri per un uomo che è solo industriale vecchio stile, con pregi e difetti. Sindacati deboli, politica debole verso Arvedi a partire da Regione e governo.
I sindacati da soli non hanno la forza di uscire dalla morsa del centrosinistra affamato di finanziamenti e consensi facili, visto l’elettorato mobile e spaventato di oggi.
Non esiste però un percorso comune a industria e sindacati: gli interessi sono opposti, diversi. E’ normale, non è un “vecchio schema”. Il dipendente non ha gli stessi interessi del proprietario, il direttore non è sul piano del dipendenti. Che ci sia dialettica è scontato.
L’auspicio è che i sindacati non ascoltino altri che i lavoratori, che facciano il proprio difficile lavoro di rappresentarli, mostrando tutto il coraggio e la serietà di cui sono capaci.
