La macchina blu correva per le strade di Roma: il poliziotto alla guida aveva fretta di consegnare il pacco all’uomo importante che l’attendeva con l’impazienza indecorosa ed eccitata della cattiva coscienza. I palazzi sfilavano veloci davanti ai finestrini, componendo astruse geometrie di spazi e di memorie, mentre il pacco si aggiustava il trucco, studiava le mosse che avrebbe fatto tra pochi minuti, pensava al modo di chiedere il compenso, a quella trasmissione che voleva condurre: forse nel tremolio dei sedili che volavano sopra i sanpietrini, avvertiva il disagio degli uomini che la portavano all’ altare sacrificale del potere. Da due mesi erano stati tolti dalla scorta di un magistrato per passare alla degradante gestione della soubrettina: ordine di Roberto Castagne il ministro sodale e amico, complice di serate sciagurate, servizievole vedetta contro le incursione della legittima signora, la Manù che ogni tanto scendeva a sorpresa verso la capitale. Ah cosa non può il volonteroso mezzano.
“Un minuto e ce semo” dice un poliziotto con il viso girato ad angolo verso il sedile posteriore.
Lei fa un cenno di si con la testa. Ripone la piccola trousse nella borsetta e cercando una qualche connivenza con la scorta bisbiglia all’uomo che la guarda: “Mica allontanarvi, nè”
“Ma quanto starà in casa di …?”
“Non so, magari un’oretta, ma forse ci sto anche la notte”
Il calibano che la vuole è spiccio e sbrigativo, insolente, vuole esercitare il potere in modo palese e, come nella politica, trova nella volgarità una preziosa alleata. Per questo la soubrettina ha lasciato in quella casa qualche vestito, un profumo, lo spazzolino da denti: non le servono quasi mai, ma sono il suo alibi per creare un rapporto più umano con quel cinghiale che sa di selvatico. Amuleti a difesa di un minimo di dignità, reperti di una vita che non è mai stata.
La macchina si ferma a pochi metri dalla porta d’ingresso, la soubrettina scende concedendo ai poliziotti la vista sulle cosce, almeno il fumo dell’arrosto, s’infila nell’androne, sprofonda nella penombra mentre l’autista avvisa il leader che il pacco sta salendo. Lei lo sa, ma suona lo stesso il campanello, come se tutto fosse normale. E sente i passi grevi del leader che si avvia alla porta, il suo sbuffare aprendo, quasi avvertendo l’afrore che emana. “Sei tu?” lo sente chiedere da dentro, mentre già apre il chiavistello. “Finalmente”.
Lei lo guarda e vede che ha già la patta sbottonata, sa che tra poco avvertirà il nauseante odore di un sapone dozzinale, sfregato distrattamente. Tutto è già stato vissuto.Così chiude la porta, si mette in ginocchio e comincia a ravugliare dentro quella ferita aperta nei pantaloni. Lui il leader comincia prima a farfugliare col respiro pesante poi ad incitare e la soubrettina riconosce quel tono stravagante che ormai sembra da comizio e comincia a sentire le sue mani penetrare nei capelli. Come sempre da qualche mese ormai e lei ha imparato come rendere la cosa più rapida possibile, anche se il leader vuol pronunciare discorsi lunghi, vuol rende più lunga l’umiliazione, compiaciuto più dalle proprie parole che dalla fatica mineraria di lei.
Ma qualcosa cambia questa volta, il profluvio volgare s’interrompe quasi all’improvviso come se qualcuno avesse chiuso lo stereo e lui le si accascia addosso, praticamente morto. Forse ricorda con qualche ironia il fatto di essere riuscita a gridare come un’aquila per avendo ancora la bocca occupata da quel programma politico con una vita propria. E’ quasi un destino che un dramma abbia le movenze della farsa in quel paese dei campanelli che si chiama Italia: il potente accasciato con tutto il suo peso, imperniato dentro una bocca e gli strilli che superano i vetri e scendono in strada, come i fantasmi di una verità.
I poliziotti sentono, accorrono, liberano la soubrettina dal corpo morto e mettono in moto la macchina dei soccorsi e dei depistaggi. Roberto Castagne si preoccupa di mettere le cose in modo che la lontana Manù non sospetti e che soprattutto l’Italia non abbia un ictus di consapevolezza. E dopotutto è meglio che sia accaduto qualcosa al cervello del leader che non ai suoi attributi: il primo in fondo era secondario ormai.
Il leader viene salvato proprio per i capelli, qualcosa trapela, ma non si può dire nulla di provato, solo racconti che per ironia corrono di bocca in bocca, gossip che peraltro può venire buono per smentire e per trovare ancora una volta la strada delle riviste patinate di ipocrisia e di idiozia. Ma il segreto pesa sempre e il leader salvato e dimezzato è ormai preda di un ricatto ambiguo e non esplicito, ma concreto e continuo: il silenzio costa e anche il tradimento. E i soldi e i soldi di tutti, come del resto quelli a pagamento delle prestazioni, corrono verso la pasionaria ignorante e laureata, il suo nerboruto amante a rischio di ictus, vero le muliebri voglie pedagogiche della legittima titolare del programma politico, verso i figli stampella di una continuazione del potere, verso quelli che sanno.
Solo la soubrettina deve in qualche modo rifarsi una faccia. E c’è sempre qualcuno, là in alto, pronto ad accogliere le pecorelle smarrite, specialmente se bazzicano la televisione. Così possiamo immaginare il lavacro morale tra zuccotti rosseggianti e sottane cardinalizie, l’immancabile pentimento, l’immancabile ipocrisia. E’ così che finisce la storia con il pastore che chiede “E’ pentita figliola”?
E lei risponde: ” Sissignore”
Ma allora è proprio un vizio.