Magazine Diario personale

Questione di sopravvivenza

Da Maddalena_pr

NANNA-PAPPA-CACCA: L’ENTUSIASMANTE TRILOGIA

DSC00329_pe_wprnNo amore, non è che sei in castigo.
Ti ho portata in salotto con garbo, seduta sulla tua poltroncina gialla a pupazzetti con delicatezza, e acceso la tv. E, anche se la tua testa piccola come una boccia di quelle con la neve in effetti penzola come un’offesa, il labbro arricciato all’ingiù, che hai imparato a estrovertere per mostrare al meglio tutta la tua disapprovazione. Anche se con tutti i tuoi 80-e-rotti centimetri di carne riveli sofferenza… no, non è un castigo: è sopravvivenza.

Ma lo sai che abbiamo ascoltato non una non due non tre ma quattordici canzoni del cd della nanna, sul lettone, prima di mollare la stanza e venire a fare altro? (Definizione di “altro”: le cose che fa mamma senza di te: ossia quasi nessuna.) Lo sai che, anche dopo quattordici canzoni, non ne abbiamo sentite altre solo perché, per qualche ignoto trucco tecnologico, la radiosveglia non snooza che una volta e, finita quella, dà per certo che gli ascoltatori ormai dormano o si siano rotti abbastanza le scatole da migrare altrove?

E, dunque: questo dilungarci affettuosissimo (non che non mi sia piaciuto) ci porta alla televisione nell’ora infausta, quella in cui difficilmente c’è il tuo cartone preferito. Anche perché, pare, tra le mille cose che stai cambiando di te ci sono anche le preferenze, e l’altro giorno credevo di aver fatto bingo scovando Paw Patrol ma invece hai lamentato no, poppatol! La giungla di Rai yoyo ti fa cagare, la scimmia di Freesbe pure, su Super gira roba da grandi. Alza quel visino, non farmela pesare. Mi salva Dora su Cartoonito, e adesso non dirmi no, doa no! perché sei fortunata, ché ai miei tempi c’era solo Scacciapensieri sulla tv in bianco e nero, e si aspettava il sabato sera, e gli altri giorni giocavo e basta. E giocavo da sola.

Mia mamma faceva la casalinga: avevo perfino i fazzoletti stirati. Faceva da mangiare ogni giorno, è vero: io cucino a giorni alterni, un giorno cucino e l’altro recupero. L’hai capito anche tu, che sei venuta di qua (prima di Dora), mi hai chiesto: “Amo cadae, puè” (andiamo a scaldare il purè). Fino a ieri ti permettevi l’illusorio “Amo: puè” ma ormai hai capito come gira. I letti al mattino erano già pronti per la notte seguente, e la straordinarietà era vedere mia madre pattinare per i corridoi di marmo con le pezze sotto i piedi, spingendo la lucidatrice: atto che spiccava dal quotidiano passare l’aspirapolvere come una festività.

Io le pezze, amore mio (ormai hai capito anche questo), le ho da un’altra parte: certo non mi serve metterle sotto i piedi, ché qui di lucido non c’è più nemmeno il pensiero e l’evento eccezionale è l’aspirapolvere. Però, mi concederai, tua madre passa lunghissime, dico lunghissime ore a giocare con te. Un po’ come una baby sitter pagata apposta per farlo. Però gratis. Che poi a te le ore non paiano così lunghe è marginale: sappi che, malauguratamente, io le sento.

Nanna-pappa-cacca: ecco l’entusiasmante trilogia di queste ultime, immense mattine. In piena fase “giochi di simulazione” resisti non più di due minuti sulla pista “ciuciùf” che ci ho messo un quarto d’ora a montarti, non più di cinque a giocare con l’acqua (che metterò altri dieci per ripulire e asciugare), e poi via a fare finta di.

Logicamente cucinare il puè è in pole position. Lo scrolli con un atto sicuro dal pentolino al piatto, soffi, ci metti il grana e avanti così una quindicina di volte. Poi è il turno della Peusc (il valigino della dottoressa Peluche): ti sdrai e, per non far mancare nulla alla recita, piangi la tua sofferenza con smorfie alquanto realistiche. Tanto che la tua ingenua mamma non può esimersi dal domandarti con premura: “Amore, basta? Sei stufa?” Logicamente sbagliando. Quindi c’è il momento del cesso: ti siedi sulla scatola aperta del lego e mostri quel pezzo grosso marrone che – devono averti suggerito i fratelli – sarebbe la cacca. E ti pulisci con quello che trovi. Infine la nanna: ovviamente devo sdraiarmi anch’io. Ovviamente devo spegnere la luce, rimboccare le coperte, russare per finta, sentire il gallo che canta (tu), accendere la luce, alzarmi, e poi ripetere il tutto – anche qui – una dozzina di volte.

Tutto questo, son certa, apparirà fantastico, arrotondato e sublimato nel ricordo come solo il tempo sa fare. Ma, nel mentre, non ti offendere, ti prego, se la simulazione maggiore la faccio io: quella di non essere stufa. E se, dopo cotanto prodigarmi, ti siedo su quella poltroncina gialla. Come dicevo: è sopravvivenza.


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