La questione libica un paio di mesi fa era protagonista d'ogni genere di spazio sui media italiani, poi piano piano è scomparsa, finita nel dimenticatoio, come fosse una pratica archiviata. Ma la situazione è ancora caotica e non si intravedono spiragli per una soluzione.
Mattia Toaldo è un analista per lo European Council on Foreign Relations di Londra. Raggiunto telefonicamente dal Giornale dell'Umbria, ha spiegato che le speranze di pacificazione tra i due pseudo-governi di Tobruk e Tripoli sono in realtà non così buone come si crede. Toaldo è uno degli esperti che crede che la riconferma per altri sei mesi dell'incarico all'inviato Onu Bernardino Leòn ─ il cui mandato era scaduto qualche giorno fa ─, sia non tanto un segno di continuità, ma una segnale preoccupante di allungamento dei tempi per la soluzione. «O finiremo in una situazione di stallo, che servirà a mascherare l'essenziale fallimento dei colloqui di pace; oppure ─ dice Toaldo ─ avremo una soluzione molto parziale, con un governo di unità molto debole, con la continuazione dei combattimenti e con il Paese ancora in balia delle milizie». Circostanza che per altro rischierebbe di favorire la crescita delle posizioni estremiste.
Delle due parti ai tavoli di trattava marocchini, per il momento sembra quella costituita dall'Alba della Libia (la coalizione di milizie, più o meno islamiste, che governa l'area occidentale, Tripoli compresa), ad avere più interesse nei colloqui. Cerca legittimazione internazionale: mentre il governo regolare, quello esiliato a Tobruk, a est, quella legittimazione ce l'ha già, ed è per questo che è più restio a trattare una soluzione di unità nazionale. Inoltre, la presenza di spoiler come l'Egitto e gli Emirati Arabi dà all'esecutivo orientale la sicurezza di poter vincere pensando di risolvere militarmente la questione. L'Egitto è stato molto chiaro, auspicando in Libia un intervento militare sulla linea di “Decisive Storm” ─ l'operazione che diversi Paesi arabi stanno conducendo in Yemen contro i ribelli filo-iraniani Houthi ─ al fianco dell'esecutivo di Tobruk. “Noi vi forniamo aiuto in Yemen, e voi ci ricambiate in Libia”: può essere schematizzato così il pensiero di fondo del generale presidente Sisi ai Paesi arabi del Golfo. Sisi si è dato come missione politica una specie di riforma del mondo islamico, partendo dalla lotta agli estremisti: e poco importa differenziare tra Fratellanza musulmana, milizie libiche di Misurata, o lo Stato islamico di Baghdadi.
Lo Stato islamico, appunto. Il threat mondiale «è una realtà in forte espansione in Libia, anche se ancora è molto diverso da quello che conosciamo in Siria e Iraq», spiega Toaldo: «L'IS ancora non controlla fette di territorio libico, non è un esercito consolidato, ha un potere molto simile a quello delle cosche mafiose in Italia». L'unica area di territorio controllata con continuità, è quella di Nawfaliyah, centro abitato che si trova qualche chilometro a est di Sirte, dove le forze della Brigata 166 lo stanno combattendo (la Brigata 166 è un'unità paramilitare dell'Alba, sempre per quella storia del cercare legittimazione internazionale). Nelle altre zone del paese, compreso Sirte e Derna, lo Stato islamico ha un controllo parziale. «Il problema ─ aggiunge Toaldo ─ è che se la guerra civile continua, prima o poi si creeranno spazi per favorire un attecchimento ancora più importante degli uomini di Baghdadi».
Pochi giorni fa, il Consiglio di sicurezza dell'Onu ha votato una risoluzione per estendere la lotta allo Stato islamico in Libia, ma non è chiaro come questa sarà attuata. L'uso della forza è stato per il momento escluso, anche perché attualmente non c'è la reale necessità di avviare, per esempio, raid aerei visto la limitatezza dell'estensione territoriale; servono piuttosto combattimenti strada per strada, azioni di guerriglia come quelle della Brigata 166, mentre invece le forze guidate dal generale Haftar (Tobruk), hanno più interesse a combattere i rivali tripolitani anziché quelli del Califfato. Certo è che la pacificazione sarebbe la condizione quasi necessaria per affrontare l'ascesa dell'IS.
L'Eni nella guerra
È uscito in questi giorni un interessante articolo del Wall Street Journal dal titolo “Libya’s War Rages but Eni Keeps Pumping Oil” e sottotitolo “With protection from Islamic militias”. Nel pezzo si citano fonti che hanno raccontato al giornale americano di come l'Eni è stata in grado di mantenere la propria produzione grazie ad accordi stipulati con milizie e clan locali ─ altre aziende, come la francese Total, la spagnola Repsol e l’americana Marathon Oil, hanno invece annunciato la sospensione delle loro attività a causa del peggioramento della situazione nella aree geografiche dei propri centri estrattivi. (nelle ultime settimane, diverse campi ad est di Sirte sono stati presi d'assalto dagli uomini dell'IS).
Secondo il WSJ questi gruppi armati avrebbero un accordo con l'azienda energetica italiana, garantendone sicurezza (sembra sottinteso, che l'accordo non è gratis). Eni ha negato ogni coinvolgimento di questo genere.
«In realtà ─ spiega Toaldo ─ Eni ha potuto mantenere alta la sua produzione per tre ragioni: innanzitutto per la logistica dei centri di produzione, molti dei quali sono offshore (come il giacimento da poco scoperto al largo del campo di Bahr Essalam. Ndr) e dunque sono più difficilmente attaccabili, mentre invece per quanto riguarda quelli cirenaici, a terra, la produzione è ferma da tempo; poi c'è il ruolo giocato dal nostro governo, che ha mantenuto sempre una posizione neutrale, meno esposta di altri esecutivi europei (solitamente schierati verso Tobruk. Ndr); e soprattutto c'è la radicazione territoriale di Eni, che è presente in Libia dal 1959 dai tempi di Mattei, sviluppando una politica sociale forte e creando un tessuto culturale fortemente dipendente dall'azienda. A Mellitah in molti vivono grazie alla ditta italiana, e attaccarne gli interessi sarebbe una scelta fortemente impopolare».
A parte questo, da fine febbraio si vocifera della partenza di un gruppo di incursori del COMSUBIN (Comando subaquei e incursori) dalla guarnigione di Varignano, La Spezia, verso una non precisata missione in Libia: forse la loro nave d'appoggio si trova nelle acque intorno alle piattaforme petrolifere Eni, dove le forze speciali italiane restano pronte all'intervento se qualcosa dovesse andare storto. Un ulteriore deterrente, visto che nell'area (specie nella zona di Sabratha, vicinissimo all'hub di Mellitah) sembra si sia registrata la presenza di elementi riconducibili allo Stato islamico.
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