«Stanno arrivando, Scudo d’Acciaio.»
Garor annuì all’esploratore senza guardarlo, con gli occhi che fissavano, attraverso gli occhiali dell’elmo, la gola che si protendeva dinanzi a lui. Il vento la percorreva come un fiume gelido, portando i versi striduli delle bestie del Branco. «Preparati alla gloria.»
Il messaggero si batté un pugno sul petto e si andò a unire agli uomini alle spalle di Garor, che si voltò. Scudi dalle insegne di draghi, falchi, lupi e corvi si mostrarono nel mare d’acciaio.
Settecento uomini addestrati a combattere.
Garor sollevò l’ascia al cielo e tuonò il grido di guerra. L’esercito esplose in una tempesta di ruggiti, battendo le armi sugli scudi. Le pareti della gola tremarono come scosse da un terremoto.
Ma non a farlo assieme.
«Figli di Odino!»
L’esercito di grida si calmò, fino a spegnersi. Gli strilli striduli del Branco sibilarono nella gola.
«Quest’oggi io vedo clan, che un tempo si erano dati battaglia l’un l’altro, uniti in un solo esercito contro i demoni del sud.» Piantò il manico dell’ascia in terra. «Quest’oggi, io vedo la stirpe prescelta degli dei brandire con coraggio le asce e le spade, pronta a morire per la gloria, pronta a cadere contro il Branco!»
Le grida affilate delle bestie graffiarono le orecchie come artigli di ghiaccio. La terra sotto i piedi tremò dei passi del Branco in avvicinamento.
Garor pose lo scudo dinanzi a sé, e i guerrieri lo imitarono. I volti tesi in sorrisi di sfida e le pupille spalancate dalla furia fisse sull’orda di bestie; le lame sollevate nel silenzio delle strilla.
Garor diede le spalle ai guerrieri. La valanga di bestie in lontananza occupava la gola in tutta la sua larghezza; un tumulto di corpi, artigli e zanne diretto verso l’esercito. «Quest’oggi. Noi sfidiamo. Noi combattiamo. Noimoriamo in nome di Odino e degli uomini del nord!»
Sollevò l’ascia al cielo e la batté sullo scudo, la batté sullo scudo, la batté sullo scudo. Settecento tuoni d’acciaio, come i tamburi degli dei, echeggiarono alle sue spalle, sfidarono lo stridore delle bestie in avvicinamento, gli ruggirono nelle viscere.
Garor gonfiò il petto e levò l’ascia. «Le Valchirie cavalcano già al nostro fianco!» Fissò l’esercito. «Noi cavalcheremo al loro!»
Ruggì il grido di guerra, puntò al Branco e caricò, seguito dall’esplosione delle urla furiose dei guerrieri e dal tonare dei loro passi. Le bestie echeggiarono stridule e si gettarono incontro ai figli di Odino.
Garor gridò, fracassò la testa di un lupo squamato con lo scudo, decapitò un corvo d’ossa con l’ascia, vorticò su sé stesso e squartò il petto di una lince dalle zampe di ragno. Estrasse l’ascia in uno zampillo di sangue e sputò via il sapore amaro dalla lingua.
Un falco dalla testa di leone gli afferrò le spalle con gli artigli. Garor ruggì e gli piantò l’ascia nella gamba, staccandogliela dal corpo. Il falco cadde a terra, Garor ne schiacciò il petto e si lanciò su di un uomo dal volto di cavallo. La coda di scorpione della bestia gli saettò incontro; Garor si pose lo scudo di fronte. La punta trapassò il legno, si fermò a un soffio dalla cotta di maglia.
Garor strattonò lo scudo per far cadere la bestia, squarciò al volo un pipistrello a due teste, distrusse la mascella di un cane di unghie e piantò il piede sul petto dell’uomo dal volto di cavallo. Schiantò l’ascia sulle sue grida stridule: la testa si aprì in uno scrocchiare d’ossa rotte.
Si alzò con la coda di scorpione ancora infilzata nello scudo. Un orso gli si avventò addosso e lo gettò a terra. I polmoni si svuotarono all’impatto. La bestia schiacciò con la zampa lo scudo: la coda di scorpione colpì la cotta di maglia, che sfrigolò, si arroventò, si fuse. L’incendio d’acciaio scavò incandescente nella pelle.
Garor gridò, sollevò l’ascia; gli artigli di ferro dell’orso si abbatterono sul braccio. La scossa di dolore pervase i nervi e i muscoli fino alla spalla e l’ascia gli cadde di mano. La coda di scorpione raggiunse il petto, penetrò nella carne. Garor sgranò gli occhi, spalancò la bocca in un grido soffocato.
L’orso sollevò la zampa per colpirlo. Garor afferrò l’elsa della spada di Gromr, la sfoderò e affondò la lama nel ventre della bestia, che scattò all’indietro in un ruggito stridulo. Garor tirò via urlando lo scudo da sé, e con esso la coda di scorpione. Il veleno ustionante bruciò nella carne e sulle ossa della gabbia toracica.
Garor ruggì, si rialzò, spezzò la punta della coda e tranciò l’altra estremità. Ficcò la spada nel ventre dell’orso e vi aprì uno squarcio dal basso verso l’alto, in una cascata di calde interiora bianche e una colonna di vapori putrescenti.
Con l’incendio del veleno nel petto e il dolore che gli percorreva i nervi, Garor oltrepassò il cadavere dell’orso. Si fece strada fra lupi di vetro, cinghiali di sabbia, renne d’occhi, corvi di vene, donne di pece, bambini di ferro. I versi striduli gli percossero il cervello, le grida degli uomini gli tuonarono sotto il peso dell’elmo e l’incendio gli esplose nei polmoni.
Si trovò in uno spiazzo vuoto, ansimando. Le bestie percorrevano i bordi del cerchio di terra, come onde di corpi e zanne che, scontrandosi con uno scoglio, si dividono per riunirsi e proseguire nella corsa subito dopo.
Garor sgranò gli occhi, serrò le mascelle. Al centro dello spiazzo, con le braccia percorse dalle spine che toccavano terra e le corna d’ariete che torreggiavano sul volto di lupo, s’ergeva il Capobranco, che snudò le zanne ritorte nella bocca e gonfiò il petto: il ruggito metallico esplose nell’oceano di sibili bestiali e grida di uomini.
Lo stesso ruggito metallico di quel giorno, un anno addietro.
È per me, padre?
Garor sollevò la spada, col braccio che tremava dalla furia e il veleno che gli azzannava il petto; ruggì il grido di guerra e caricò il Capobranco, che gli si lanciò addosso con gli artigli protesi in avanti. Garor si gettò di lato e la terra tremò all’impatto degli artigli col suolo. Si rialzò. Le corna sul volto di lupo gli vennero incontro e travolsero lo scudo issato a fermarle. Garor volò all’indietro e crollò a terra; boccheggiò allo svuotarsi dei polmoni.
Padre! Non riesco a uscire, padre!
Garor lasciò andare lo scudo e rotolò sul fianco per scansarsi dalla manata del Capobranco. Fece leva sul braccio libero per issarsi in piedi e affondò la spada nel palmo della mano coperta di spine diretta verso di lui. Il Capobranco scattò all’indietro sibilando e la lama di Gromr emerse con un fiotto di sangue dalla carne.
Garor ruggì, caricò il mostro e gli piantò la spada nel ventre. Il Capobranco lo afferrò con la mano sana e lo sollevò all’altezza del muso; le ossa scricchiolarono nella stretta di ferro delle dita.
Gli occhi bianchi del mostro lo fissarono. Le fauci spalancate a mostrare le file di zanne ritorte, grondanti di saliva nera.
Prendi tuo figlio, Garor! Pensiamo noi al mostro!
No, il Capobranco è mio!
Il Capobranco se lo portò alla bocca. Garor gridò; l’incendio di dolore gli scorticò la gola e il petto. Spinse con le braccia verso l’esterno, tirò fuori dalla stretta la spada e la ficcò nel polso del mostro, che lasciò andare la presa. Garor restò aggrappato alla spada, s’issò sul braccio del Capobranco e saltò incontro al volto di lupo.
«Questo è per Gromr!» Calò la spada sul muso. Le ossa si spaccarono all’impatto con l’acciaio e le zanne e le ossa e i frammenti della lama spezzata schizzarono in aria nella pioggia di sangue e brandelli di carne.
Garor cadde sul fianco, che esplose nelle fitte di dolore. Il Capobranco scattò all’indietro con la testa, tracciando un arco di sangue dal muso distrutto, e rovinò al suolo con un boato metallico.
Geri non arriva, padre! Geri non arriva!
Odd, no! Odd!
Padre! Padre, no! Pa-
Odd!
Garor gridò contro il suolo congelato, batté il pomolo della spada spezzata sul terreno. Gridò, e le lacrime gli graffiarono le guance come artigli roventi.
Si rialzò in piedi e scattò addosso al Capobranco steso a terra. Saltò sul ventre squarciato, raggiunse il petto inerte e vi si inginocchiò, con le braccia che tremavano. Il veleno nel corpo un incendio di grida.
Sollevò la spada con entrambe le mani. La lama spezzata rivolta al cuore.
«Questo è pe-»
L’artiglio del Capobranco gli trapassò la schiena e il ventre nell’esplosione delle ossa e nel vomito delle viscere. Garor si pietrificò, attraversato dalle scosse di dolore che squartavano i nervi delle gambe, delle braccia, della testa; la spada ancora levata e gli occhi sgranati.
Singhiozzò, tossì una boccata di sangue. Gli occhi bianchi del mostro lo fissarono dal muso distrutto.
Attorno a lui, la stessa pioggia di strilli bestiali di quel giorno, un anno addietro.
È per me, padre?
Un istante addietro.
I polmoni tremarono, le spalle tremarono, le braccia tremarono, le mani tremarono e il ruggito di guerra si fece strada fra il sangue che vomitò dalla gola per esplodere come un tuono nella pioggia di strilli.
«È PER TE, ODD!»
La spada piombò: la lama spezzata squarciò la pelle e la carne e le ossa fino a tuffarsi nel cuore del Capobranco. Il mostro sollevò la testa in un urlo stridulo e spinse verso l’alto l’artiglio conficcato nel ventre di Garor, che gridò il ruggito di guerra con le mani saldate alla spada; l’elsa emergeva dal petto del mostro fra gli zampilli di sangue che schizzavano verso il cielo.
L’urlo del Capobranco morì. E la testa cadde all’indietro, contro il suolo, con un tonfo.
Garor rimase immobile, inginocchiato. Con le mani sulla spada e l’artiglio cosparso di sangue e carne che fuoriusciva dal ventre.
Il dolore scomparve, soffocato dal silenzio di un sospiro di condensa.
Chinò il capo, pesante sotto l’elmo d’acciaio, e appoggiò la fronte sul pomolo freddo della spada, da cui staccò la mano destra, attraversata dai tremiti. Tastò con le dita sotto la barba ruvida.
E chiuse gli occhi.
Salve, padre.
—
Sigvatr scavalcò il cadavere di un uomo dal bacino strappato, oltrepassò il corpo squarciato di un orso dalle ali squamate e proseguì oltre un cumulo irriconoscibile di carne, interiora e ossa, fino a raggiungere lo sparuto gruppo dei guerrieri sopravvissuti. Alle sue spalle echeggiarono i lamenti delle donne abbastanza coraggiose da cercare i propri cari nella distesa di corpi in putrefazione e nell’odore nauseante delle viscere al vento.
Sigvatr corse incontro ai guerrieri che circondavano il mostro. Che circondavano l’assassino di suo padre.
Cacciò indietro un singhiozzo e deglutì. Sorrise. Lo avevano abbattuto, ce l’avevano fatta!
Si fece strada a spintoni fra i guerrieri in silenzio e si fermò, con la bocca aperta.
Gli occhi gli si riempirono di lacrime.
Lo Scudo d’Acciaio era lì, come la statua di un eroe delle saghe che gli avevano raccontato. Era lì, inginocchiato come per ringraziare gli dei per la vittoria. I suoi occhi erano chiusi, e la barba ingioiellata di ghiaccio.
Una mano gli si appoggiò sulla spalla. «Conosco quella spada.»
Sigvatr sussultò e voltò la testa.
Il guerriero che lo aveva toccato sospirò. Spostò lo sguardo dallo Scudo d’Acciaio per fissarlo negli occhi. «E so che ti appartiene.»
Sigvatr tirò su col naso, e annuì. Si arrampicò sul cadavere del Capobranco e si inginocchiò di fronte allo Scudo d’Acciaio. Si passò la manica sotto il naso gocciolante.
Il capo chino della statua non disse nulla.
Sigvatr appoggiò le mani su quella dell’eroe che stringeva la spada, e si fermò. L’altra mano dello Scudo d’Acciaio si perdeva sotto la barba.
Sigvatr si inginocchiò al suo fianco, e scostò appena i peli ricoperti di ghiaccio.
Dal pugno chiuso della mano, sporgeva la testa intagliata di un lupo.
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