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Questo libro.

Da Suster
Questo libro.
Questa la copertina, con antenne televisive su fondo bianco...Ma siccome non è possibile giudicare il libro dalla copertina, non sempre e non solo, però non conviene quasi mai...Ma dicevamo: qual è il libro che in assoluto vi rappresenta di più? (Lo so, la risposta era un po' diversa, ma la riformulo qui in maniera più chiara: quello che, di getto, vi vien da considerare il vostro uno e solo?)Ora che avete diligentemente risposto in tanti (chi più, chi meno; magari non ce l'avete un libro così e allora, giustamente mi avete risposto: che domanda del piffero! E avete ragione, ma così, si fa per parlare...), ora tocca a me.
 Il mio libro è Le città invisibili di Italo Calvino, come qualcuno avrà già intuito, perchè la sottoscritta quando si fissa su un argomento te lo presenta in tutte le salse, a proposito e a sproposito.
Così, di getto.
Un libro che non è narrativa. Un libro che non è nemmeno saggistica.
Molti romanzi che ho letto mi hanno emozionato, coinvolto, appassionato.
Ma poi col passare del tempo il ricordo si allontana e l'emozione sbiadisce, per lasciar posto a quelle nuove.
Oppure continuiamo ad alimentarle per fedeltà a quella prima emozione iniziale, anche se in realtà è svaporata da tempo.
I saggi possono dare grandi soddisfazioni intellettuali, farti comprendere, conoscere, svelarti realtà fino ad allora ignorate, proporti ipotesi interessanti. Ma anche qui il tempo passa implacabile e cancella nozioni acquisite, confonde nomi, rende approssimativo e meno efficacie un pensiero che prima era brillante e ben strutturato.
Invece un libro che non tiene conto di inclinazioni personali, di propensione per un genere o un altro, che non si pone in un solco, che valica i confini. Di più, che sembra non parlare di nulla, o meglio: che non si capisce di cosa parla, accidenti!
Una scelta bizzarra magari, questo esile libretto irto di arzigogoli e rovelli, ma anche di vaneggiamenti, visioni, senza una storia vera e propria, senza una forma letteraria precisa.
E ora vi dico perché.
Perché?
Se è vero che i libri che scegliamo indicano in qualche modo che tipo di persone siamo (dimmi cosa leggi...) forse vuol dire che io sarò così: cervellotica, concettuale fino alla nausea, ma anche volatile, svincolata da una trama prestabilita, da un genere, da un inquadramento, incline al visionario, attratta inesorabilmente dall'onirico, in bilico tra il resoconto razionale e la favola?
Allora, perché?
Perché ci sono alcuni libri che ti entrano dentro, cambiano il tuo modo di vedere le cose, di pensare, sono capaci di plasmarti.
Balle, uno direbbe. Tutti discorsi a vanvera!
Invece no. Tu leggi e ti si propongono quesiti che non ti eri mai posta, ti si aprono squarci su mondi immaginari che non ti appartengono, ma che, una volta partecipati, diventano anche tuoi, gli dai una forma, nel pensiero.
Magari queste città immaginate non corrispondono all'immagine che aveva di loro lo scrittore, scrivendone, o il narratore Marco Polo, parlandone, o il gran Khan, che ascolta paziente questi resoconti pazzeschi, per quanto, "non è detto che Kubilai Kan creda a tutto quel che dice Marco Polo", ma comunque lo ascolta, e si figura nella testa la forma di quelle bizzarre città turrite, o bastionate, sotterranee o volatili e impalpabili come i sogni.
Anche i libri son così, in fondo. Me l'avete fatto notare anche voi: non sempre becchi quello giusto nel giusto momento della tua vita. Difficilmente lo stesso libro racconterà le stesse cose a due persone diverse, fossero anche due amici inseparabili, due fratelli, o due innamorati. Quasi mai, parlando a distanza di anni dello stesso libro con un amico, ricorderete le stesse cose. Quasi mai assocerete lo stesso libro alla stesso stato emotivo.
Basterebbe dare uno sguardo alle recensioni dei lettori on line. C'è chi osanna un libro come un capolavoro assoluto, chi lo liquida in due parole come insulso; chi poi lo apprezza con riserve, considerandolo troppo pesante o impegnativo; chi invece ne parla con indulgente affetto, riconoscendone le pecche, ma dichiarando di averlo amato profondamente; chi infine dirà di non essere riuscito a finirlo perché l'ha trovato oltremodo angosciante.
Ovvìa, direbbero qui, com'è possibile questo? Pur sempre della stessa sequenza di segni grafici si tratta.
"Chi comanda al racconto non è la voce: è l'orecchio."
E' in questa selva di significati e significanti che ci destreggiamo, cercando di tirarne fuori qualcosa di più: quello che ti rimane, quello che suscita in te, ciò recepisce il soggetto. Ricordi, emozioni, sensazioni, immagini, desideri.
Tanti anni fa leggo un romanzo di cui mi innamoro, e me ne porto dietro un ricordo edulcorato da un periodo della mia vita che ricordo come sereno e spensierato, l'immagine di me che leggevo sdraiata su un'amaca in un lussureggiante giardino di una casa di villeggiatura, un trullo a picco sul mare.
Rileggerlo oggi, neanche a parlarne: non è più cosa.
Quante volte invece amici e conoscenti ci consigliano letture con promesse di grandi meraviglie, e invece noi ci troviamo ad arrancare pagina dopo pagina su un volume che ci rimane sul gargarozzo?
Anche queste città sono libri, libri da decifrare, che racchiudono esperienze, vite, storia, uomini viventi e non, abitanti presenti e futuri, genti di passaggio, studenti Erasmus, lavoratori pendolari, parenti in visita, migranti in cerca di fortuna, chi arriverà e chi progetta di partire.
Sono storie, ma sono anche disegni, architetture, volumi, materia plasmata, forme contrapposte, sovrapposte, secoli che si stratificano uno sull'altro, più o meno superstiti al passaggio del tempo.
E' un equilibrio continuo tra l'unità e la molteplicità, tra il caos e l'ordine, tra la fluidità delle forme, e il sottile progetto che è sotteso al loro stare insieme.
Anche questo libro, a dispetto della sua forma sfuggente a qualsiasi catalogazione tradizionale, nasconde in realtà una trama geometrica al suo interno, un ritmo, un disegno che dia un senso all'enumerazione di queste, che sono suggestioni di città, impressioni isolate, estratti di vissuto.
E però i significati li sfiori e subito ti sfuggono, ché vorresti leggerle e rileggerle, le tue città, quelle che ti hanno parlato, che ti hanno fatto pensare: "Eccola, è questa la mia città invisibile", e ogni volta che ci ritorni sopra ti pare diversa.
Viverla è come pensarla, solo che vivendola ci sei dentro, e pensandola invece è lei a essere dentro al tuo pensiero, ad essere contenuta in te. Anche per i libri, no? Mentre li leggi, è come entrarci, è come farne parte. Poi, quando li hai finiti, te li porti dentro, hanno lasciato una traccia nella tua memoria, condizioneranno in qualche misura i tuoi discorsi futuri, le tue scelte, letterarie, se non altro, i tuoi giudizi, le tue conoscenze, forse i tuoi atti.
Ti hanno cambiato, ma più passa il tempo, più l'immagine che ne porti nella memoria si discosta da quello che era il modello originale, si contamina con altre letture, o con esperienze, con cose sentite raccontare, si confonde, ci sono cose che vengono omesse e altre che non c'erano, altre che erano appena accennate e che ricordi invece come momenti salienti e ben descritti, magari solo perché da una parola messa lì erano scaturite in te riflessioni molto più ampie. Chissà.
Anche quando ritorno in un posto dopo tanto tempo devo fare i conti col divario tra ciò che vedo e ciò che ricordavo. Il divario tra la città visibile e quella invisibile. O meglio: tra l'una visibile e le infinite invisibili.
"Dunque è davvero un viaggio nella memoria il tuo?"
Dice Kubilai Kan, non capendo che qualsiasi viaggio vive assai più a lungo nella memoria di chi l'ha vissuto che nell'immediatezza.
Ci sono le città immaginate come possibili, ma che non sono mai state realizzate, perché poi solo una è stata la forma presa nella realtà, determinata dal susseguirsi degli eventi, come la trama di un libro, che si dipana davanti ai tuoi occhi mentre scorri le pagine, immaginando possibili epiloghi (peccato per il finale, sarebbe stato meglio un lieto fine. Oppure: troppo scontato, troppo inverosimile, troppo trascinato). Città effettiva e città supposte: "l'una racchiude ciò che è accettato come necessario mentre non lo è ancora; le altre ciò che è immaginato come possibile e un minuto dopo non lo è più".
E anche: "I futuri non realizzati sono solo rami del passato: rami secchi."
Potrei continuare senza trovare il punto, vaneggiare e vaneggiare.
La verità è che questo libro parla di se stesso, parla di quella dimensione impalpabile che è l'immagine interiore del mondo, dentro la quale noi tutti ci muoviamo, facciamo riferimento, quella di cui parliamo, generando infinite altre immagini di altrettanti altri mondi interiori nell'immaginario di chi ascolta.
Ora per esempio, che vi racconto questo libro, chissà che curiosa idea ve ne sarete fatti.
Ma non è quello, il libro che vi ho raccontato, non quello con le antenne in copertina: è quello che mi è rimasto in testa, che ogni giorno si arricchisce di pensieri e visioni, e a cui cerco di trovare immagini che gli corrispondano.
Non avete capito niente? Meglio: almeno non potrete dire, se mai vi fosse venuta la voglia di procurarvelo e di leggerlo, che le aspettative non corrispondevano alla sostanza, che i miei osanna erano esagerati e che il libro è decisamente sopravvalutato.
Non pretendo che chi lo legga vi trovi quel che vi ho trovato io.
 La città per chi passa senza entrarci è una, e un'altra per chi ne è preso e non ne esce; una è la città in cui si arriva per la prima volta, e un'altra quella che si lascia per non tornare...

Questo libro.

Cristina Madini, Cupole.



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