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“Questo mare è pieno di voci e questo cielo è pieno di visioni” *di M.Gisella Catuogno Onirica Edizioni

Creato il 19 marzo 2013 da Viadellebelledonne

questo marePrefazione

Viatico di Natura, Gisella Catuogno ci immerge nel paesaggio eterno della fioritura, nell’essenza fragrante della marina, nei colori aspri e lievi delle stagioni, tutte, nei barbagli di luce di un’ora, di un momento, dell’infinito di attimi nei quali si snoda l’evolversi del tempo immacolato, delle istantanee del cosmo, del suo respiro. Si va oltre il ritratto paesaggistico en-plein-air comunque prediletto nella sua ricerca di armonia, di stasi, di pace, oltre gli scorci, le magnifiche sequenze di un proscenio d’orizzonte che muta ad ogni sguardo, che rinverdisce in autunno e si scuote nelle estati in cui il sole a tamburo non concede tregua alla visione. Oltre. Gisella ricerca, nelle impunture del meccanismo perfetto oleografico naturale, nel suo incedere quasi indifferente alle vicende umane, il punto di contatto con la reale indifferenza dell’uomo più che verso il paesaggio, che va pervicacemente devastando, al concerto dei valori necessari alla convivenza.

Il calendario scandito a partire dal sistole-diastole dei mesi e delle stagioni muta in itinere, o per meglio dire si affianca costantemente al dolore della coscienza, nominata nostalgia o ricordo in ossequio allo smarrimento degli ideali più che ad una cronaca romantica del vissuto.

Ogni elemento della Natura narrata, dipinta conduce in Gisella ad una riflessione sul distacco che l’uomo ha operato da essa in primo luogo e poi via via, in una teoria lugubre dell’abbandono, dai propri simili, nello stillicidio che ha condotto alla guerra, all’intolleranza, allo sterminio di esseri umani e delle loro idee, fonti queste dell’esistere.

I temi salienti, oltre quelli citati, della Resistenza, intesa come lotta per l’ideale profondo, o della Spiritualità, che sempre fonda sul concetto dell’umanità offesa e della sofferenza inflitta, della Donna come universalità negata, si fanno salsedine al mattino e concrezioni d’alghe al vespro, animali che meglio di noi captano le nenie della memoria stessa.

Le litanie di contro che come ombre salgono dal canneto, perfettamente congrue anche con il cataclisma naturale, ora vanno lette come disattenzione alla parte più pura dell’uomo, l’infanzia, relegata a funzione di gioco temporaneo e che invece Gisella evidenzia in tutti i sommovimenti del suo cosmos, come l’indicazione elusa, il comandamento che gli elementi redigono ad ogni istante del loro divenire.

“Perché gli adulti sono così seri?”, si chiede Gisella proprio nel momento in cui l’afrore di un albero, la sua possanza la portano con enfasi ad inginocchiarsi di fronte a tanta Bellezza, evasa. Nei riferimenti non solo alla ginestra, summa di leopardiana memoria, ma in tutte le infiorescenze visibili e invisibili, Gisella riporta sempre l’attenzione sulle analogie simboliche dell’umanità incompresa, nell’abbraccio verso le persone semplici che costituiscono il polline quotidiano trasportato dal vento della vita, la madre, una amica, un personaggio, il pensiero ricorrente a coloro che soffrono di indigenza, malattia, disagio psichico, inedia, lavori usuranti, migranza, per non avere un tetto cui ritornare, carichi di merce affranta bussando alle porte di case inospitali.

Quindi la Poesia di Gisella Catuogno rinfranca continuamente lo spirito con esaltanti polaroid di una Natura intatta nonostante il dileggio e allo stesso tempo lascia distogliere lo sguardo dalla perfezione della cartolina per sviarne l’attenzione verso il dolore del mondo, che sia di una perdita di affetti od offesa del tempo, ineluttabile, o inettitudine di un uomo che pare più incline all’omicidio che alla conservazione di un panorama.

E dal senso di dolore puramente metafisico nella sua mancanza di ragioni, ella ricava il valore puro della nostalgia, dell’infanzia, non come semplici topoi di un tempo andato, ma come vitalità assoluta, presente, che ogni cielo, imbronciato o splendente, ci instilla. È un crepuscolo di descrizioni, di memoria fulgida e perizia sopraffina, che si concede all’alba del pensiero, della vera ragione, non intesa come illuminismo sterile, bensì impegno dell’uomo men che a provocare, ad evitare qualsiasi tipo di disastro, per sé e per tutti.

Sergio Gabriele

 Nota critica

Ha la grazia innata dei movimenti e la precisione esperta  di termini e ritmi la poesia di Maria Gisella Catuogno. Tende con slancio autentico alla natura e ne conosce, tuttavia, la fragilità della “promessa vagheggiata” (Vigilia di primavera) e destinata a infrangersi, non senza aver prima danzato, incantando e incantandosi, al ritmo di un rondò.

In questo senso, Stelle frante è rivelazione di una poetica, suo manifestarsi nella catena impeccabile di immagini-suoni: “Non un filo d’erba/un grappolo di glicine/un sospiro di vento/un tremolio di mare/nell’alba appena desta/cambieranno di forma/intensità colori incanto.” Non è mero idillio questa ‘necessaria’ continuità, è, piuttosto, la musica, potente perché non teme di apparire semplice e sommessa (Il girasole), della “legge mite”, che regola, ovvero, più precisamente, “compone” i rapporti tra mondo e esseri umani, quella legge teorizzata da Stifter nella Premessa ai suoi racconti Pietre colorate e citata più volte da Heidegger.

La “legge mite” passa per una fase di rottura, di lacerazione, che nella lirica E già il cielo si infiamma di tramonto ha i tratti del contrasto cromatico, tra il bianco, autobiografico bagliore irresistibile del foglio da vergare “di segni e di parole/che modellino/ l’animo” e il rosso fiammante del cielo della sera,  al tramonto delle illusioni di “bloccare il tempo/in un presente infinito”.

Che la nozione della “legge mite”, “dell’ordine universale” (Il girasole) non sia supina arrendevolezza, ma “intelligenza acuta/ e libera/ da ogni pregiudizio”, “calma paziente” che affianca la “curiosità”, la consapevole “accettazione delle sfide”, è chiarito dal ricordo insieme struggente e luminoso A Patrizia (ad memoriam): “Quel che più mi manca/è quello che sapevi/e che porgevi/senza salire in cattedra/come solo i veri maestri/sanno fare;/e quel passo franco/d’eterna ragazza/cittadina;/quel tuo vestito giallo/splendido sull’abbronzatura”.

La cifra di Stillano i giorni, nell’alternanza, dominata con agilità e sicurezza,  di misure – al prevalente endecasillabo si intrecciano dodecasillabi e un settenario -  e di ritmi diversi, è la “quieta grandezza”, è la melodiosa semplicità, è l’armonia con la quale Maria Gisella Caatuogno tesse, non priva di sublime ironia, classico e fiabesco, donando a chi legge, a chi ascolta, il ritratto veritiero, familiare e originalissimo, di un sé incantato a guardare “i petali dell’alba”, a riempire “d’acqua sorgiva” le brocche, ad aspettare “il sole,che sciolga questa brina”.

Anna Maria Curci

 

Un sussulto [Violenza sulle donne]

Un sussulto, concediti un sussulto

di dignità, di misericordia:

non sono carne da godere o da macello

sono creatura, come te

contraddittorio impasto

di cielo e di terra, di miele e di dolore.

Devi accettarmi, non plasmarmi

-come argilla il vasaio-

sono pesanti le tue mani

magli che illividiscono

e spaccano la pelle, aprono rivoli

di sangue, lacrime ed orrore.

Non appartengo a te

né a nessun altro, sappilo:

io sono della stessa materia delle stelle

degli acini che si gonfiano nel grappolo

della linfa che vivifica i tronchi

e fiorisce gemme a primavera.

La mia anima è ovunque, credilo:

nelle maree lievitate dalla luna

nei movimenti delle posidonie sui fondali

nel frullìo d’ali degli uccelli

nel vibratile sussurro della neve.

Non è forza la tua, è solo debolezza

vigliacca, che m’umilia e t’umilia

che recide ogni filo della trama

tessuta un giorno insieme.

Perché l’anima, sai, non si possiede

non si possiede mai.

E questo corpo su cui cantasti

un giorno, forse, una canzone d’amore

è diventato una sfida e una prigione.

E’ sbocciato l’odio nel mio cuore

e lo coltivo come fosse un fiore.

E mi ripeto che questa non è vita

è un cadavere senza sepoltura

un incubo perverso e allucinante

l’inferno, senza averne colpa.

 

 

 

A mia figlia per l’8 marzo

Che ti posso offrire, figlia mia,

oggi otto marzo, festa della donna

di questi miei pensieri deboli e opachi?

Vorrei intrecciare per te serti di rose

e canestri di speranze alate;

lucidare ancora di più il cielo

già terso e lindo d’un marzo

appena in fasce ma già pronto

a scalzare il grigio dell’inverno

per offrirtelo come dono

con tutta la sua luce e il suo tepore;

e raccontarti, se trovassi le parole,

la bellezza e la fatica d’esser donna

e il regalo prezioso che ho avuto dalla vita

di condividere con te un tratto di cammino

e di specchiarmi nei tuoi occhi immensi

riconoscendovi barlumi d’antica identità.

Tu percorri altre strade, altri studi, altre passioni

non ti consuma la letteratura, ami le scienze

preferisci il come al perché che sfinisce ed è vano.

T’offro un rametto virtuale di mimosa

lo cerco tra le immagini, lo invio in allegato:

deve essere giallo e bello come il sole

ne sentirai il profumo attraverso il pc

e penserai a una mamma orgogliosa di te

che t’aspetta sull’isola già tiepida di primavera.

 

 

Vigilia di Primavera

Eppure l’aspettiamo, tutti gli anni

come l’approdo d’una promessa

vagheggiata nell’ombra fredda

delle stagioni morte;

come la gemma d’una speranza

di fede nella vita, tuttavia:

le piume d’un nido in attesa

sotto il tetto

il vento tiepido d’ Eostre

che rinasce

e semina di petali e di luce

le lande desolate dell’inverno

le uova fecondate degli uccelli

negli anfratti sicuri

d’una cavità d’albero

della concavità salata d’uno scoglio

le ripe che s’accendono di giallo

negli spettinati grappoli

dei fiori di ginestra

il mare già cosparso sui fondali

del baluginio biancastro

delle posidonie

il cielo più alto e meno vuoto

di voli e di schiamazzi

acrobata sospeso

tra verità e mistero.

*Il titolo è tratto da un discorso di Giovanni Pascoli



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