Prefazione
Viatico di Natura, Gisella Catuogno ci immerge nel paesaggio eterno della fioritura, nell’essenza fragrante della marina, nei colori aspri e lievi delle stagioni, tutte, nei barbagli di luce di un’ora, di un momento, dell’infinito di attimi nei quali si snoda l’evolversi del tempo immacolato, delle istantanee del cosmo, del suo respiro. Si va oltre il ritratto paesaggistico en-plein-air comunque prediletto nella sua ricerca di armonia, di stasi, di pace, oltre gli scorci, le magnifiche sequenze di un proscenio d’orizzonte che muta ad ogni sguardo, che rinverdisce in autunno e si scuote nelle estati in cui il sole a tamburo non concede tregua alla visione. Oltre. Gisella ricerca, nelle impunture del meccanismo perfetto oleografico naturale, nel suo incedere quasi indifferente alle vicende umane, il punto di contatto con la reale indifferenza dell’uomo più che verso il paesaggio, che va pervicacemente devastando, al concerto dei valori necessari alla convivenza.
Il calendario scandito a partire dal sistole-diastole dei mesi e delle stagioni muta in itinere, o per meglio dire si affianca costantemente al dolore della coscienza, nominata nostalgia o ricordo in ossequio allo smarrimento degli ideali più che ad una cronaca romantica del vissuto.
Ogni elemento della Natura narrata, dipinta conduce in Gisella ad una riflessione sul distacco che l’uomo ha operato da essa in primo luogo e poi via via, in una teoria lugubre dell’abbandono, dai propri simili, nello stillicidio che ha condotto alla guerra, all’intolleranza, allo sterminio di esseri umani e delle loro idee, fonti queste dell’esistere.
I temi salienti, oltre quelli citati, della Resistenza, intesa come lotta per l’ideale profondo, o della Spiritualità, che sempre fonda sul concetto dell’umanità offesa e della sofferenza inflitta, della Donna come universalità negata, si fanno salsedine al mattino e concrezioni d’alghe al vespro, animali che meglio di noi captano le nenie della memoria stessa.
Le litanie di contro che come ombre salgono dal canneto, perfettamente congrue anche con il cataclisma naturale, ora vanno lette come disattenzione alla parte più pura dell’uomo, l’infanzia, relegata a funzione di gioco temporaneo e che invece Gisella evidenzia in tutti i sommovimenti del suo cosmos, come l’indicazione elusa, il comandamento che gli elementi redigono ad ogni istante del loro divenire.
“Perché gli adulti sono così seri?”, si chiede Gisella proprio nel momento in cui l’afrore di un albero, la sua possanza la portano con enfasi ad inginocchiarsi di fronte a tanta Bellezza, evasa. Nei riferimenti non solo alla ginestra, summa di leopardiana memoria, ma in tutte le infiorescenze visibili e invisibili, Gisella riporta sempre l’attenzione sulle analogie simboliche dell’umanità incompresa, nell’abbraccio verso le persone semplici che costituiscono il polline quotidiano trasportato dal vento della vita, la madre, una amica, un personaggio, il pensiero ricorrente a coloro che soffrono di indigenza, malattia, disagio psichico, inedia, lavori usuranti, migranza, per non avere un tetto cui ritornare, carichi di merce affranta bussando alle porte di case inospitali.
Quindi la Poesia di Gisella Catuogno rinfranca continuamente lo spirito con esaltanti polaroid di una Natura intatta nonostante il dileggio e allo stesso tempo lascia distogliere lo sguardo dalla perfezione della cartolina per sviarne l’attenzione verso il dolore del mondo, che sia di una perdita di affetti od offesa del tempo, ineluttabile, o inettitudine di un uomo che pare più incline all’omicidio che alla conservazione di un panorama.
E dal senso di dolore puramente metafisico nella sua mancanza di ragioni, ella ricava il valore puro della nostalgia, dell’infanzia, non come semplici topoi di un tempo andato, ma come vitalità assoluta, presente, che ogni cielo, imbronciato o splendente, ci instilla. È un crepuscolo di descrizioni, di memoria fulgida e perizia sopraffina, che si concede all’alba del pensiero, della vera ragione, non intesa come illuminismo sterile, bensì impegno dell’uomo men che a provocare, ad evitare qualsiasi tipo di disastro, per sé e per tutti.
Sergio Gabriele
Nota critica
Ha la grazia innata dei movimenti e la precisione esperta di termini e ritmi la poesia di Maria Gisella Catuogno. Tende con slancio autentico alla natura e ne conosce, tuttavia, la fragilità della “promessa vagheggiata” (Vigilia di primavera) e destinata a infrangersi, non senza aver prima danzato, incantando e incantandosi, al ritmo di un rondò.
In questo senso, Stelle frante è rivelazione di una poetica, suo manifestarsi nella catena impeccabile di immagini-suoni: “Non un filo d’erba/un grappolo di glicine/un sospiro di vento/un tremolio di mare/nell’alba appena desta/cambieranno di forma/intensità colori incanto.” Non è mero idillio questa ‘necessaria’ continuità, è, piuttosto, la musica, potente perché non teme di apparire semplice e sommessa (Il girasole), della “legge mite”, che regola, ovvero, più precisamente, “compone” i rapporti tra mondo e esseri umani, quella legge teorizzata da Stifter nella Premessa ai suoi racconti Pietre colorate e citata più volte da Heidegger.
La “legge mite” passa per una fase di rottura, di lacerazione, che nella lirica E già il cielo si infiamma di tramonto ha i tratti del contrasto cromatico, tra il bianco, autobiografico bagliore irresistibile del foglio da vergare “di segni e di parole/che modellino/ l’animo” e il rosso fiammante del cielo della sera, al tramonto delle illusioni di “bloccare il tempo/in un presente infinito”.
Che la nozione della “legge mite”, “dell’ordine universale” (Il girasole) non sia supina arrendevolezza, ma “intelligenza acuta/ e libera/ da ogni pregiudizio”, “calma paziente” che affianca la “curiosità”, la consapevole “accettazione delle sfide”, è chiarito dal ricordo insieme struggente e luminoso A Patrizia (ad memoriam): “Quel che più mi manca/è quello che sapevi/e che porgevi/senza salire in cattedra/come solo i veri maestri/sanno fare;/e quel passo franco/d’eterna ragazza/cittadina;/quel tuo vestito giallo/splendido sull’abbronzatura”.
La cifra di Stillano i giorni, nell’alternanza, dominata con agilità e sicurezza, di misure – al prevalente endecasillabo si intrecciano dodecasillabi e un settenario - e di ritmi diversi, è la “quieta grandezza”, è la melodiosa semplicità, è l’armonia con la quale Maria Gisella Caatuogno tesse, non priva di sublime ironia, classico e fiabesco, donando a chi legge, a chi ascolta, il ritratto veritiero, familiare e originalissimo, di un sé incantato a guardare “i petali dell’alba”, a riempire “d’acqua sorgiva” le brocche, ad aspettare “il sole,che sciolga questa brina”.
Anna Maria Curci
Un sussulto [Violenza sulle donne]
Un sussulto, concediti un sussulto
di dignità, di misericordia:
non sono carne da godere o da macello
sono creatura, come te
contraddittorio impasto
di cielo e di terra, di miele e di dolore.
Devi accettarmi, non plasmarmi
-come argilla il vasaio-
sono pesanti le tue mani
magli che illividiscono
e spaccano la pelle, aprono rivoli
di sangue, lacrime ed orrore.
Non appartengo a te
né a nessun altro, sappilo:
io sono della stessa materia delle stelle
degli acini che si gonfiano nel grappolo
della linfa che vivifica i tronchi
e fiorisce gemme a primavera.
La mia anima è ovunque, credilo:
nelle maree lievitate dalla luna
nei movimenti delle posidonie sui fondali
nel frullìo d’ali degli uccelli
nel vibratile sussurro della neve.
Non è forza la tua, è solo debolezza
vigliacca, che m’umilia e t’umilia
che recide ogni filo della trama
tessuta un giorno insieme.
Perché l’anima, sai, non si possiede
non si possiede mai.
E questo corpo su cui cantasti
un giorno, forse, una canzone d’amore
è diventato una sfida e una prigione.
E’ sbocciato l’odio nel mio cuore
e lo coltivo come fosse un fiore.
E mi ripeto che questa non è vita
è un cadavere senza sepoltura
un incubo perverso e allucinante
l’inferno, senza averne colpa.
A mia figlia per l’8 marzo
Che ti posso offrire, figlia mia,
oggi otto marzo, festa della donna
di questi miei pensieri deboli e opachi?
Vorrei intrecciare per te serti di rose
e canestri di speranze alate;
lucidare ancora di più il cielo
già terso e lindo d’un marzo
appena in fasce ma già pronto
a scalzare il grigio dell’inverno
per offrirtelo come dono
con tutta la sua luce e il suo tepore;
e raccontarti, se trovassi le parole,
la bellezza e la fatica d’esser donna
e il regalo prezioso che ho avuto dalla vita
di condividere con te un tratto di cammino
e di specchiarmi nei tuoi occhi immensi
riconoscendovi barlumi d’antica identità.
Tu percorri altre strade, altri studi, altre passioni
non ti consuma la letteratura, ami le scienze
preferisci il come al perché che sfinisce ed è vano.
T’offro un rametto virtuale di mimosa
lo cerco tra le immagini, lo invio in allegato:
deve essere giallo e bello come il sole
ne sentirai il profumo attraverso il pc
e penserai a una mamma orgogliosa di te
che t’aspetta sull’isola già tiepida di primavera.
Vigilia di Primavera
Eppure l’aspettiamo, tutti gli anni
come l’approdo d’una promessa
vagheggiata nell’ombra fredda
delle stagioni morte;
come la gemma d’una speranza
di fede nella vita, tuttavia:
le piume d’un nido in attesa
sotto il tetto
il vento tiepido d’ Eostre
che rinasce
e semina di petali e di luce
le lande desolate dell’inverno
le uova fecondate degli uccelli
negli anfratti sicuri
d’una cavità d’albero
della concavità salata d’uno scoglio
le ripe che s’accendono di giallo
negli spettinati grappoli
dei fiori di ginestra
il mare già cosparso sui fondali
del baluginio biancastro
delle posidonie
il cielo più alto e meno vuoto
di voli e di schiamazzi
acrobata sospeso
tra verità e mistero.
*Il titolo è tratto da un discorso di Giovanni Pascoli